il manifesto
Guido Viale, Parole usurate. Slessico familiare, prospettive aperte (Edizioni Interno 4, pp.184, euro 14)
È l'operazione che compie Guido Viale nel suo recente Parole usurate. Slessico familiare, prospettive aperte, un testo tempestivo e prezioso per l’ampiezza dei campi semantici (e culturali) esplorati, ma anche per il vigore dell’argomentare e il nitore dell’esposizione. Pur nella necessaria sintesi del quadro, «uno schizzo del mondo in cui viviamo, certo incompleto», Viale individua tuttavia le parole-chiave per disvelare l’universo concentrazionario in cui il pensiero unico ha trascinato l’immaginario contemporaneo. Si pensi a uno dei termini più osannati dal conformismo totalitario di oggi: il merito. Viale ricorda come dietro l’esaltazione del valore, del meglio, del più bravo, si celi «una visione del mondo che giustifica e promuove la competizione universale - una versione totalizzante di darwinismo sociale - come soluzione ’naturale’ di tutti i problemi: il sistema ottimale, si sostiene, per allocare le risorse - anche quelle cosiddette ’umane’ - e promuovere il benessere di tutti. Il darwinismo sociale legittima le diseguaglianze responsabilizzando o colpevolizzando gli individui per la loro condizione: ciascuno è quello che è - povero o ricco, potente o emarginato, dirigente o subordinato, vittorioso o soccombente - perché ’se l’è meritato’, ’se l’è voluto’, ’se l’è andata a cercare’».
In questo "slessico", tuttavia, non troviamo solo la demolizione teorica di lemmi ormai usurati del pensiero dominante. Alcune parole offrono a Viale l’opportunità di revisioni sorprendenti per originalità e ardimento intellettuale. Basti pensare al termine proprietà: «La più antica, persistente e fondativa forma di appropriazione, ovvero di proprietà (’il terribile diritto’, per Stefano Rodotà), nelle diverse forme che ha assunto nel corso della storia, è quella degli uomini sulle donne. Su di essa si sono modellate tutte le altre forme di proprietà che hanno accompagnato il succedersi delle civiltà: sugli animali addomesticati, sui campi, sui pascoli e le foreste, sugli schiavi, sui palazzi, sul denaro, sul capitale, sui mezzi di produzione, sulla conoscenza, sul genoma: tutte forme di accaparramento di ciò che è fecondo o ritenuto tale, di ciò che produce o promette di produrre. Il modello è la fecondità della donna, la produzione della propria prole, considerata da sempre la forma fondamentale e irrinunciabile della ricchezza: la perpetuazione, in altre vite, della propria esistenza».
L’attenzione di Viale spazia su temi lontani tra loro e anche dai suoi precedenti interessi. Osserva i mutamenti psicologici indotti dai media: « Le cascate di parole e immagini che ci investono attraverso i media audiovisivi difficilmente si depositano e, come la moneta cattiva scaccia quella buona, l’inflazione di informazioni e immagini prodotta dai media restringe progressivamente lo spazio riservato ai contenuti meditati. La scuola – ancora quasi interamente affidata alla parola scritta in quotidiana competizione con la marea di suoni, immagini e parole, gridate, sussurrate o cantate, prodotta dai media – è stata la prima vittima di questo passaggio».
E tuttavia Viale segnala anche le grandi conquiste del pensiero alternativo e antagonistico, soprattutto quelle provenienti da una nuova «ecologia delle mente», per citare Bateson, e quelle del mondo ambientalista, che propongono un’«economia circolare» e non più «estrattiva», riconsegnano gli uomini alla loro dimensione naturale, riconsiderando la natura come un tutto organico in cui si consuma anche il nostro destino di viventi. E di certo un contributo culturale importante è quello dei capitoli finali del libro, in cui Viale condensa le conquiste teoriche del pensiero anticapitalistico degli ultimi decenni proiettandole verso una dimensione progettuale.
Leggendo queste pagine non ci si può sottrarre alla considerazione di un gigantesco paradosso. Nell’ambito della sinistra radicale si è accumulato, anche in Italia, un sapere sociale di straordinaria ricchezza e potenza, che rimane frammentato e disperso, e a cui corrisponde, in larghissima parte, un ceto politico che sembra aver chiuso ogni rapporto con la cultura.