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Andrea Aimar
Nuto Revelli e i vinti dello sviluppo
Il testamento di un popolo e la sua eredità
6 Febbraio 2018
Libri segnalati
Doppio Zero online, 6 febbraio 2018. Nel "mondi dei vinti" dell'Italia arcaica delle povere vite contadine squassate dalle guerre, si celava una sapienza che avremmo potuto utilizzare per comprendere l'oggi e il domani, ed evitarne lo squallore

Doppio Zero


Il 5 febbraio 2004all’età di 85 anni ci lasciava Nuto Revelli. Ha saputo scrivere della guerracome pochi in Italia, una guerra vissuta sia da ufficiale dell’esercito che dapartigiano. Ha passato il resto della vita a lavorare sulla memoria e araccogliere le testimonianze di vita di quella che riteneva la sua gente.Questo articolo riflette su una parte della sua eredità. Sono rimastosull’uscio per qualche minuto. Entrando mi pareva di disturbare. Anche se inquel piccolo studio con le pareti rivestite di legno, non c’era nessuno.

Non ero mai stato primanella casa di Nuto Revelli in corso Brunet 1 a Cuneo. Oggi è la sede dellafondazione che porta il suo nome. Laddove c’era la camera da letto condivisacon l’amata Anna, sono ora conservati i documenti di una vita che compongonol’archivio in fase di riordino. La stanza del figlio Marco si è invecetrasformata in un ufficio. Mentre il salotto non sembra aver mutato destinazioned’uso: gli amici di un tempo lo ricordano come luogo di lunghe chiaccherate.

Se una persona l’haiconosciuta esclusivamente attraverso le parole dei suoi libri, fa un certoeffetto essere a un paio di metri dalla sua macchina da scrivere. Per questaragione tentenno sull’uscio, osservo da lì le foto in bianco e nero, i tantilibri riposti nella libreria sulla destra. Molti dei titoli rimandano al chiodofisso, probabilmente la ragione principale per cui Nuto Revelli ha dovutoscrivere: la guerra, in tutte le sue forme.

Rimango lì, a quella cheritengo essere la giusta distanza.
Le tante vite di Nuto

Revelli è stato prima unufficiale dell’esercito italiano, convinto alla guerra da un’educazione in annidi fascismo. Poi partigiano, convinto dalla guerra, quella combattuta, e dallaritirata nel ghiaccio della Russia. Nella vita in borghese degli anni ‘50 èdiventato commerciante di ferro, inizialmente per necessità, dopo come “scusa”per evitare di essere definito intellettuale, storico, scrittore. Ritrosiatutta cuneese da una parte, consapevolezza profonda da un’altra: la suascrittura – più che vocazione o vezzo – è stato un strumento, l’unico, con cuiprovare a estinguere il debito contratto. Una cambiale da onorare, un«pagherò»: «Ricorda - mi dicevo - ricorda tutto di questo immenso massacrocontadino, non devi dimenticare niente».

I creditori di Nutoerano i tanti soldati che aveva visto morire al fronte, i partigiani inbattaglia con lui nelle valli cuneesi e i loro genitori ad attendere notizienelle povere case. Per lo più contadini i primi, i secondi e i terzi. Solo cosìsi può capire perché Nuto arrivi a intraprendere, dopo i libri in cui raccontala guerra e la resistenza, il viaggio nel “mondo dei vinti”. Di come, a uncerto punto, il suo chiodo fisso sia testimoniare le conseguenze di una guerrainedita, combattuta senza clamore né armi ma così intensa da mettere a rischioun’intera civiltà, un’intera cultura: quella contadina. Il debito contratto sipoteva estinguere solo alimentando una memoria negata, solo concedendo voce eassicurando «un nome e un cognome ai testimoni».

Duecentosettanta storiedi vita. Sette anni di ricerca. E poi il secondo viaggio, altri anni, il ritornareper sentire le voci al femminile: “l’anello forte” silenzioso ma semprepresente. E una fortissima sensazione d’urgenza, quella che ricorda MarcoRevelli pensando a suo padre negli anni a cavallo tra il decennio sessanta etutti gli anni settanta. Le sere quasi sempre rintanato nel suo studio adascoltare le voci dei suoi testimoni e prendere annotazioni. E poi tutti i finesettimana vederlo prender l’auto armato solo del suo fidato magnetofono: «lascatola che ascolta e scrive tutto». Le valli, le colline e la pianura cuneesebattute palmo a palmo per fotografare con parole ciò che per Nuto aveva tuttele caratteristiche di un «genocidio». Laddove non erano riusciti i dueconflitti mondiali e la continua emigrazione, erano arrivate la modernizzazionee l’industrializzazione. Un «esodo» che dalle montagne e dalle aree piùmarginali spingeva le persone verso la città e la fabbrica. Interi territoriabbandonati, le case lasciate lì ferme nel tempo come dopo un terremoto.

Era facile nel 1977quando per i tipi di Einaudi uscì Il mondo dei vinti, ed è facile ora,liquidare Nuto Revelli col ritratto del nostalgico, del cantore dei “bei tempiandati”. È una scorciatoia per evitare il confronto con ciò che ha scritto e lestorie che ha portato fuori dall’oblio. Nuto però non era contro l’industria diper sé, non ha mai creduto alla «libertà dei poveri» ma era preoccupatodall’«industria che aveva stravinto», dall’imposizione di una monoculturaeconomica e dall’assenza del limite: «La terra gialla, intristita daidiserbanti, mi appariva come il simbolo dei vinti. Il mio chiodo fisso era chesi dovesse salvare un equilibrio tra l’agricoltura e l’industria prima chefosse troppo tardi».
Resistenze, lucciole emasche

Prima erano serviti ifucili e le bombe. Dopo solo un registratore e delle parole da mettere in filale une alle altre. Una resistenza che continua in altre forme, per certi versimolto più complessa. Il Nuto comandante partigiano a capo di un gruppo diragazzi nascosti nelle montagne, è diventato il Nuto cercatore che si avvale diuna brigata di mediatori: gente in grado di portarlo a conoscere uomini come inesilio nelle proprie valli. Con loro Nuto arrivava in luoghi sperduti a parlarecon testimoni autentici ‘dl’aut secul. I mediatori, figure che meriterebberoromanzi, erano conoscitori eccellenti del proprio territorio e della sua gente,garantivano a Nuto il lasciapassare: quella fiducia iniziale senza la quale alforestiero non si confessava alcunché.

Non è eccessivoraccontare questo lavoro di ascolto e di emersione come una diversa forma diresistenza. Ha senso se si crede che la modernizzazione e la civiltà deiconsumi siano arrivate su quelle persone con la stessa violenza diun’imposizione e con la conseguenza di un lento annichilimento. Riecheggiano leargomentazioni di Pier Paolo Pasolini e la sua critica a un’ideologia dellosviluppo che definiva, senza mezzi termini, come un «nuovo fascismo». Unatendenza all’omologazione culturale e all’erosione di qualunque residuo diautonomia che, secondo il poeta friulano, nemmeno il fascismo storico o lachiesa erano riusciti a minare.

Il mondo dei vinti diRevelli può essere anche raccontato come un resoconto in presa diretta diquesto processo. Però con l’attenzione, e l’attitudine, a evitare astrazioni eil rischio di scivolare nel mito: «Sapevo che la stagione antica delle lucciolee delle cinciallegre era felice soltanto nelle pagine scritte dagli “altri”,dai letterati, dai “colti”».

Anche per questo Nutopredilige le testimonianze dirette con la loro forza di vita raccontata.Nonostante si distanzi dalla nostalgie delle «lucciole» di Pasolini, Nuto trovain realtà nelle baite e nei ciabot il paesaggio umano degli Scritti corsari edelle Lettere luterane. Nelle storie di quei montanari e di quei contadiniemerge come il fascismo era passato da quelle parti senza lasciare traccia, difatto subito nell’indifferenza. La Chiesa era il vero potere storicamenterispettato, anche se un potere esterno, anch’esso accettato più per necessitàche per sincera adesione. Prova ne è l’autonoma religiosità e spiritualità diquel mondo popolato di masche, le streghe delle credenze popolari piemontesi.

E poi il dialetto, dicui proprio in quegli anni i giovani hanno iniziato a provare vergogna perchésimbolo di arretratezza. Io mi ricordo quando mia nonna si sforzava di parlarecon me in italiano: non voleva passare per ignorante. Quella linguarappresentava invece un codice esclusivo e protetto di una propriarappresentazione delle cose, la garanzia di una biodiversità culturale. Certoera anche una barriera capace di escludere: «chi non parla piemontese èstraniero».
Ci ha pensato la«modernizzazione», con il ruolo centrale della televisione, a indebolire, sinoquasi alla completa scomparsa, quella cultura millenaria. Ha promosso nuovi,vincenti, modelli antropologici (che poi siamo noi).

La diserzione

Nuto Revelli aveva paurache il «testamento di un popolo» emerso anche con le sue interviste, venisseconsiderato con il distacco del «documento antropologico» quando invece era, edè, una «requisitoria urlante e insieme sommessa». Non un materiale buono soloper farci convegni ma un atto di accusa che meritava risposte e nuoveconsapevolezze. Nuto se la prendeva con chi aveva praticato la «diserzione»,con chi stava lasciando quel mondo al suo destino senza fare nulla. Se alledestre e alla Democrazia Cristiana imputava le responsabilità per essere igaranti degli equilibri di quello sviluppo così ineguale e dannoso; dalle forzedella sinistra esigeva risposte e linfa nuova perché anche loro «non capivano ofingevano di non capire». Si rendeva conto che anche in quella parte, la suaparte, la forza persuasiva dell’industrializzazione e di quel modello disviluppo a crescita infinita aveva fatto breccia. I comunisti così come leforze della nuova sinistra dei gruppi extraparlamentari sembravano condividerein quegli anni l’euforia produttivista. È sempre Marco Revelli, all’epocamilitante di Lotta Continua, a offrire uno spaccato: «io non capivol’ostinazione di mio padre, quel dedicare così tanto tempo a un mondo indeclino. A me sembrava positivo allora che quelle persone se ne andassero viada quei posti per scendere in fabbrica, da militanti di sinistra poi pensavamoche una volta operai avremmo potuto parlarci mentre diversamente i nostridiscorsi non facevano breccia».

In un’intervista aNuova Società, Nuto rivolgeva nel settembre del 1977 il suo appello: «Oggianche un politico di sinistra non sa cosa fare. Ma, se il PCI non risolve certiproblemi, in Italia non li risolve nessuno. […] Le parole d’ordine d’allarmenon sono state sentite da chi deteneva il potere, ma anche all’interno dellasinistra il discorso ha sempre privilegiato l’industria. L’interesse per ladiscussione sui problemi delle campagne è sempre stato flebile». E in undialogo su «Ombre Rosse» nel dicembre dello stesso anno spronava: «Un cordoneombelicale la mantiene (la manodopera della Michelin, della Ferrero ndr)collegata alla terra in cui è nata e cresciuta. Se un sindacalista, se ilsindacato non conosce questo contesto, tutto quello che sta fuori e prima dellafabbrica, parla a questi operai con un linguaggio sconosciuto, e non deve poistupirsi della sindacalizzazione che non c’è, degli scioperi che non riescono.[…] questi operai invece di andare a cercarli davanti alle porte dellaMichelin, dove escono storditi che cercano d’arrivare a casa prima che sianotte, andateli a trovare in campagna, dove lavorano ancora. Capirete che sonorimasti dei contadini. […] È in campagna che potete parlare della fabbrica».
Parole che ricordanoquelle del 2001 di Paolo Rumiz, in La secessione leggera, in cui racconta ilfenomeno leghista nel nord Italia: «Le radici non sono affatto una cosa didestra, ma lo diventano eccome quando la sinistra ne ha orrore». E diventadifficile non collegare, non mettere insieme le cose: quanto c’entra a sinistrala subalternità a un modello economico con la fuga dei «naufraghi dellosviluppo» dal proprio popolo?
È tuttaqui l’attualità del messaggio di Nuto Revelli, dei suoi appelli urlanti einsieme sommessi alla sinistra perché cambiasse approccio, acquisisse nuoveconsapevolezze sul modello di sviluppo che stava vincendo. C’era da mettere indiscussione un’impostazione, provare a guardare il mondo oltre le lentidell’operaio della “grande fabbrica”.

Unalezione inascoltata, con il senno di poi, evidente anche nel come a sinistral’ambientalismo sia arrivato come un oggetto estraneo. Ed è continuata quelladifficoltà a parlare a quel mondo che non fosse città, ha pesato su questo unatara della cultura “ufficiale” comunista: l’avversità ai piccoli proprietariterrieri che la vulgata marxista avrebbe voluto veder presto proletarizzati peringrossare le file del proprio blocco sociale. Negli anni ‘50 una polemicaintercorsa tra alcuni intellettuali del PCI e figure come Ernesto De Martino,Carlo Levi, Rocco Scotellaro, Manlio Rossi Doria e lo stesso Pasolini,testimoniava il perdurare del pregiudizio e del fastidio rispetto ai temi delmondo contadino.
CarloPetrini, il fondatore di Slow Food, ricorda quell’indifferenza quandoera militante della sinistra extraparlamentare: «ricordo una riunione delgruppo del Manifesto in cui Lucio Magri disse: “Cos’ha Petrini che parla sempredi cibo?”. Io parlavo di cibo perché condividevo i ragionamenti di Revelli,avevo visto ciò che scriveva frequentando la gente di una Langa allora ancorapovera e il mangiare era il punto d’attacco per parlare con quelle persone».
Un’ereditàsenza testimoni?
Viene dachiedersi cosa sia rimasto oggi di quell’eredità che quel «testamento di unpopolo», rappresentato da Il mondo dei vinti, ha lasciato. Di certo cisono oggi nuove consapevolezze sui limiti dello sviluppo e sugli squilibrisociali e territoriali. Cresce, seppur troppo lentamente, una coscienzaambientale che impone una revisione delle nostre priorità. Nel senso comuneaffiora l’idea che un modello economico sempre destinato a crescere siaqualcosa di irrazionale.

D’altraparte il mondo rurale e contadino gode di un rinnovato interesse. Siamo nel belmezzo di un revival della campagna, dei suoi prodotti e dei suoiprotagonisti. Il cibo è al centro della scena.
È lariscossa dei «vinti»? Chissàcosa penserebbe Nuto di questo cibo diventato spettacolo, di fabbrichecontadine e di reality dove ai contadini si cerca moglie. Riderebbe,forse, pensando ai bacialè conosciuti nei suoi giri. Veri e proprimediatori di matrimoni contadini che giravano le cascine con un “campionario”di ragazze con fotografie e indirizzi, che combinavano matrimoni tra icontadini scapoli dell’alta Langa e le ragazze calabresi in cerca di marito, edi nuove vite.

Più che uninedito rispetto per la diversità del mondo contadino, sembra di assistere a unprocesso di assimilazione. Non proprio il riscatto che immaginava Nuto. Anchese c’è speranza in alcuni giovani che ritornano nelle case abbandonate dei proprinonni, in nuovi stili di vita e in tanti esperimenti che raccontano una diversapossibilità.

C’è dachiedersi infine se quella civiltà contadina abbia preservato o meno alcuni deisuoi caratteri di autonomia culturale su cui era possibile innestare percorsidi sviluppo alternativi. C’è da chiedersi, insomma, se quel popolo c’èancora. O se forse “manca”.

Un’autonomiae una cultura di cui non bisogna dimenticare anche gli aspetti negativi, glielementi di arretratezza che nessuno rimpiange. Ma ci sono tratti di quelmestiere di vivere da riscoprire nel nostro mondo zeppo di nevrosi. Eservirebbe anche un progetto politico e culturale capace di farsene carico,valorizzando, come in qualche modo chiedeva Nuto, il buono che si scorge incontroluce nelle testimonianze dei vinti.

Civorrebbe un poco della saggezza inconsapevole dei tanti testimoni di Nuto, comequel montanaro preso ad esempio da Alessandro Galante Garrone in una recensionedel luglio 1977. La sua è una domanda, pensata in qualche borgata nascostanelle nostre Alpi, che oggi ci fa sospirare: «se le fabbriche si fermano aforza di far macchine, che cosa succederà?».
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