C’è una sola parola appropriata per decifrare la situazione dell’economia italiana dopo le cifre fornite quattro giorni fa dall’Istituto di statistica: sfascio. Non ci trastulliamo con termini più o meno tecnici, recessione, stagnazione, «stagflation» e altri consimili. La parola giusta è sfascio. Gli ingranaggi sono fermi, il motore è spento, il treno è immobile su un binario abbandonato.
Si discute quanto di questo sfascio sia dovuto a crisi congiunturale e quanto a crisi strutturale; quanto al ciclo fiacco di Eurolandia e quanto al dilettantismo nostrano.
Discussione oziosa. Nelle crisi profonde che colpiscono un organismo c’è di tutto un po’. Nel caso nostro il «nanismo» delle aziende italiane è antico, la scarsità del capitale di rischio è antica, la mediocrità della ricerca e dell’innovazione è stata una costante dell’industria italiana. Eppure questi handicap non ci hanno impedito di trasformarci in meno di vent’anni da Paese prevalentemente contadino in paese industriale e successivamente post-industriale e terziario.
Non ci hanno impedito di raggiungere un livello di reddito europeo, di accumulare risparmio, di creare nuova e maggiore ricchezza, di entrare a far parte dei sette Paesi più ricchi del mondo, di crescere a ritmi sostenuti, di occupare una posizione cospicua nel commercio internazionale.
Non ci hanno impedito una buona vita, buone vacanze, casa e seconda casa di proprietà, più di un’auto per famiglia, più di una televisione, più di un telefonino. E tante altre cose che fanno il benessere così come ora si concepisce.
Che cos’è dunque che a un certo momento si è inceppato? Perché il giocattolo si è rotto?
Su questo giornale abbiamo raccontato molte volte questa lacrimevole storia di un Paese di furbi che segavano il tronco su cui stavano seduti e sarebbe noioso raccontarla di nuovo. Basti ricordare che il meccanismo si è inceppato quando abbiamo cominciato ad accumulare un debito pubblico dissennato scaricando sulle future generazioni il peso della dissennatezza.
Scaricando gli errori, le camorre, il costo delle disuguaglianze sui figli e sui nipoti.
Ebbene, la cambiale è arrivata al pagamento. I figli e i nipoti siamo noi, visto che quest’andazzo cominciò nei primi anni Ottanta. Dunque venticinque anni fa, giusto il tempo di passaggio di una generazione.
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La crisi ebbe tuttavia un momento di ristoro e di inversione di marcia dopo aver raggiunto quello che allora fu considerato l’acme dello sfascio economico strutturale.
Ricordate? Fu nel 1992, governo Amato, la lira al tracollo, una fuga di capitali paurosa, crollo delle esportazioni, riserve valutarie prossime allo zero, sfiducia profonda dei mercati.
La reazione fu una cura da cavallo, iniziata dallo stesso Amato, proseguita da Ciampi chiamato a succedergli e portata avanti da Prodi con Ciampi al Tesoro. (Deve far riflettere che allo stesso posto dove sedettero Andreatta e Ciampi si siano poi accomodati Tremonti e Siniscalco).
In quel periodo il debito scese dal 130 al 106 del Pil, i tassi di interesse e l’inflazione tornarono a livelli europei, il bilancio registrò un avanzo delle partite correnti del 5 per cento. La politica dei redditi fu concertata dal governo con le parti sociali. La lira si fuse con altre undici monete dando vita all’euro.
Adesso Berlusconi e Tremonti fantasticano di dare una spallata (parole loro) alla Commissione di Bruxelles e attribuiscono all’euro i guai provocati dalla loro insipienza. Dimenticano di dire dove sarebbe oggi la nostra economia già così disastrata se al posto dell’euro ci fosse stata ancora la lira. Dove sarebbero arrivati l’inflazione e i tassi di interesse. Dove si collocherebbe il tasso di cambio tra la lira e il dollaro, la lira e la sterlina, la lira e l’euro, perché la moneta europea sarebbe nata lo stesso anche senza di noi e la lira varrebbe più o meno ciò che vale la moneta libica o quella argentina o quella messicana. E’ semplicemente vergognoso che queste verità siano nascoste da un’ondata di demagogia messa in piedi da «nani e ballerine».
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Dopo la nascita dell’euro gli italiani, o meglio una lieve maggioranza di elettori, preferirono tirare il fiato.
L’inversione di rotta gestita da Amato-Ciampi-Prodi verso la ricostruzione della finanza e dell’economia aveva comportato sacrifici, il risanamento aveva imposto ritmi serrati, una pausa era dunque fisiologica. Ma pesavano ancora sul paese i mali antichi, la debolezza congenita del capitalismo italiano, la scarsa innovazione, il burocratese.
Una pausa, sì, ma senza allentare la vigilanza, avviando la modernizzazione senza promettere la cuccagna; liberalizzando i settori protetti, tutelando energicamente la libera concorrenza contro l’insidia del monopolio specie nei settori della pubblica utilità, tagliando le rendite a favore dei profitti e dei salari, accorciando la catena commerciale, proseguendo la riforma del mercato del lavoro già iniziata da Prodi e D’Alema con buoni frutti, sempre nel quadro della concertazione sociale e di una politica dei redditi equa e responsabile.
Ebbene, le cose non sono andate così. Sappiamo come sono andate perché è storia di questi quattro anni. La congiuntura internazionale ha rallentato il passo. Poi il passo è tornato normale in Usa ma non in Europa. Poi ha ripreso a tirare il Giappone. Infine hanno cominciato a emergere la Cina e l’India. Si sono confrontate e si confrontano strutture economiche con costi elevati con strutture con costi bassissimi, industrie innovative con industrie «convenzionali».
In questa nuova e più difficile temperie il sistema Italia è rapidamente precipitato nelle posizioni di coda, i mali antichi sono riemersi con virulenza, altri se ne sono aggiunti. La pace sociale è stata volutamente spezzata. Si è perseguita una politica economica classista e una finanza cosiddetta creativa ma che meglio si sarebbe dovuta definire imbrogliona.
Risultato: lo sfascio, l’isolamento dall’Europa, la bugia sistematica e il nascondimento dei dati reali. E ora che si fa?
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Il governo ha buttato dalla finestra 12 miliardi di euro l’anno scorso per diminuire le aliquote dell’Irpef (soprattutto sui redditi sopra i 40 mila euro).
Voleva buttarne via altrettanti per beneficiare i redditi massimi diminuendo l’aliquota dal 43 al 39 per cento.
Adesso ci ha ripensato (per fortuna). Il «premier» quei 12 miliardi li vorrebbe destinare all’abbattimento dell’Irap che grava sull’ammontare dei salari pagati dalle aziende.
L’idea sarebbe buona ma purtroppo i soldi non ci sono. Non ci sono neppure per diminuire l’Irap di soli 4 miliardi, mentre pare ci siano, ma non si sa dove stiano, per rimpiazzare gli 11 miliardi per le «una tantum» che vanno in scadenza alla fine dell’anno. Siniscalco dovrebbe spiegare e speriamo lo faccia presto.
Lo sforamento dei parametri di Maastricht è, allo stato attuale, del 4 per cento. E’ previsto che salga al 4,6 per fine anno a legislazione vigente, ma non è spesato il contratto del pubblico impiego oltre i 90 euro, non c’è un soldo per gli ammortizzatori sociali, la Cassa integrazione è già fuori misura, confiscata in gran parte dalla crisi della Fiat; le Ferrovie denunciano esuberi per altri 10 mila dipendenti. Centomila sono i posti a rischio della grande industria (quel che ne resta). I consumi sono al punto più basso degli ultimi quindici anni. Gli investimenti languono. Le esportazioni sono in rosso.
Occorre la «scossa» per ripartire, questo dice l’emergenza: una scossa forte per ripartire subito.
La scossa, diciamolo con onesta franchezza, non può venire dagli investimenti: se il cavallo non beve, le imprese non investiranno, quale che siano gli sconti fiscali. Il cavallo sono i consumi, la domanda interna. Ci vuole dunque un provvedimento di rapido impiego che sostenga i consumi e questo è il solo modo per rimettere la macchina in moto.
Gli sconti sull’Irap puntano sugli investimenti e non entreranno in funzione (anche se decretati subito) che a metà del 2006. Troppo tardi per risollevare una situazione agonica.
Un altro provvedimento sarebbe più appropriato e di quasi immediata utilizzazione: la dimensione del cuneo fiscale, la fiscalizzazione cioè di una parte dei contributi sociali attualmente a carico delle imprese e dei lavoratori.
Agire sul cuneo fiscale è molto più appropriato che agire soltanto sull’Irap. Avvicina il costo del lavoro al salario netto che va in busta paga.
Lo sgravio potrebbe andare per metà a vantaggio delle imprese e per metà a vantaggio dei salari. Uno sconto di 3 miliardi all’Irap ed altri 3 alla fiscalizzazione contributiva: ecco 6 miliardi ben spesi. Con effetti immediati per la metà e con effetti sulle aspettative per l’altra metà che diventerebbe operante nel 2006. La copertura, per la metà immediatamente necessaria, potrebbe essere trovata dall’aumento dell’imposta sulle rendite finanziarie.
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Ma il provvedimento più efficace per restaurare la fiducia riguarda la politica: licenziare questo governo, il suo manovratore e lo stuolo dei suoi ministri-dilettanti.
Prima sarà meglio sarà. Ogni settimana è persa. Questo ormai l’hanno capito tutti. Sarebbe bene che si passasse dalle parole al fatto. Questa maggioranza non esiste più.
Perciò seppellitela prima che la sua decomposizione ammorbi l’aria con i suoi mefitici vapori.
P. S. Nel giorno del sesto anniversario del suo settennato presidenziale desidero inviare gli auguri e la più sentita riconoscenza al nostro presidente Carlo Azeglio Ciampi.
Confido d’interpretare un sentimento comune e molto diffuso nel dire che la sua presenza al vertice dello Stato è per tutti gli italiani uno dei pochi elementi di fiducia e di speranza in un futuro migliore