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Lucia Tozzi
Un tessuto urbano da cucire con cura
7 Febbraio 2010
Articoli del 2010
Interessanti riflessioni a margine del libro “L'Aquila. Non si uccide così anche una città?” e di un convegno sui centri storici a Palemo, il manifesto, 7 febbraio 2010 (f.b.)

Il centro storico è uno di quei temi che sembravano oramai avviati a un'inesorabile oblio. Parlarne era considerato peggio che retrò, una manifestazione di cattivo gusto, di ostinata pervicacia, quasi che alla semplice enunciazione di queste due parole associate dovessero istantaneamente fiorire tappeti di muffa. Dopo anni di esclusiva concentrazione sulla salvaguardia degli edifici e del tessuto della città storica, di dibattiti infiniti - fino, in effetti, alla perversione - sul restauro filologico e tipologico, urbanisti, architetti, antropologi e sociologi hanno cominciato a guardare ai margini, alle periferie, alla città diffusa, alle metropoli informali, soprattutto alle persone oltre che alle pietre, e ai modi di abitare gli spazi urbani, anche quelli apparentemente privi di qualità.

A questo fondamentale e condivisibile allargamento di prospettiva è subentrata una fascinazione tardiva, acritica e grossolanamente ideologica per qualsiasi forma urbana alternativa al centro storico: importando con un paio di decenni di ritardo i grandi classici della letteratura postmoderna come Le quattro ecologie di Los Angeles di Reyner Banham (Einaudi) o Learning from Las Vegas di Robert Venturi (Edizioni Cluva), e naturalmente l'intera produzione di Rem Koolhaas, si è arrivati a postulare che non esiste più differenza tra centro e periferia, che tutto è junkspace, che la battaglia contro lo sprawl è una bieca espressione di moralismo veteromodernista, e infine, in una «libera» interpretazione degli studi postcoloniali, che solo lo sguardo del maschio bianco occidentale può disprezzare la vita nelle favelas.

Il mercato editoriale è stato sommerso da elogi della villetta, della tangenziale, degli outlet e dei centri commerciali (detti anche superluoghi o nuovi spazi pubblici), delle gated communities, dell'energia comunitaria degli slum o dell'ingegnosità della baracca in lamiera. Roba facile da argomentare, basta un repertorio da vittime del razionalismo e qualche bella foto di bambini felici sul prato o nel rigagnolo fognoso e il gioco è fatto: una formula che permette di eludere con eleganza l'unico tema che forse valga la pena trattare: l'espropriazione continua e progressiva dello spazio vitale a opera del mercato immobiliare.

Un grande convegno che si è tenuto a Palermo il 5 e 6 febbraio, Centri storici e città contemporanea, e un libro appena pubblicato da Clean edizioni - L'Aquila. Non si uccide così anche una città?, a cura di Georg Josef Frisch (pp. 80, euro 12) - rilanciano invece la questione del centro storico, dandole finalmente tutto il rilievo politico che merita.

La tesi sostenuta dal libro e emersa nel convegno è che i centri storici (dove l'aggettivo «storico» in Italia ha un senso naturalmente molto diverso che in Cina o negli Stati Uniti, ma non esclude le loro metropoli) sono e restano fondamentali per la formazione e la sopravvivenza di una vita politica urbana, ma che a questo scopo la conservazione fisica dei tessuti urbani e il diritto di tutti gli abitanti a viverci dentro sono condizioni necessarie e interdipendenti, e vanno difese con uguale intelligenza e passione.

Finora, è vero, gli urbanisti hanno spesso sottovalutato (o deliberatamente appoggiato) il fenomeno della gentrification, il risanamento di aree per lo più centrali e degradate attraverso una aggressiva politica di sostituzione (o meglio, in certi casi, vera e propria deportazione) della popolazione meno abbiente con «classi creative», locali trendy, miliardari, turisti e proprietà finanziarie. Da parte loro schiere di filosofi politici, sociologi, antropologi hanno sopravvalutato il potere delle periferie, aggrappandosi con tutte le proprie forze alle purtroppo effimere rivolte delle banlieues o ai moti di Los Angeles e distogliendo l'attenzione dai meccanismi di esclusione - ampiamente descritti da David Harvey e Neil Smith - che passano attraverso la proprietà immobiliare: una nuova, globale e letterale accumulazione originaria.

Chi invece non ha mai perso di vista la portata politica del modello di vita associato ai centri urbani è il ceto politico al governo, espressione degli interessi del Real Estate e soprattutto attivo demiurgo di uno stile di vita interamente basato sul modello dell'individuo proprietario. Come denuncia il libro su L'Aquila, l'idea di decentrare la popolazione dei terremotati in una ventina di lottizzazioni sparse sul territorio (il progetto C.A.S.E.) senza ricostruire il centro storico è frutto di un disegno politico preciso, che si riferisce al modello di Milano 2 e 3, e ha molte probabilità di concludersi con la cessione di gran parte delle proprietà dei singoli a grandi società che trasformeranno la città in un parco a tema o qualcosa di simile.

Dove non arriva la forza devastatrice del terremoto, è sufficiente il crollo di un edificio fatiscente o qualche altro incidente di piccolo calibro per attirare piani di sicurezza e sventramenti, mastodontiche vie di fuga e altre forme di aggressione fisica dei centri urbani e di delocalizzazione degli abitanti.

«La domanda di fondo è se i centri storici possano sfuggire a un destino settoriale, basato solamente sull'eccellenza del patrimonio, sul turismo e sulle attività culturali, o possano continuare a svolgere il ruolo di strutture urbane vitali, dotate di un mix di attività ordinarie e di funzioni, prima fra tutte quella residenziale - sostiene Teresa Cannarozzo, curatrice del convegno palermitano -. Bisogna concentrare nei centri storici gli interventi di edilizia residenziale pubblica attraverso il recupero del patrimonio edilizio e riconvertire gli edifici monumentali in servizi».

Il salto culturale necessario alla riappropriazione dei centri sembra enorme, ma Palermo è il teatro di una sorta di piccolo miracolo urbano: secondo l'analisi di Francesco Lo Piccolo la presenza di un piano di risanamento (il Ppe del 1993), molto preciso nelle regole e facile da utilizzare ha garantito in questi anni una ristrutturazione lenta ma molto estesa, al riparo dagli spiriti più selvaggi del Real Estate, e l'insediamento di una popolazione mista e non segregata, composta per oltre il 20% da migranti. Perché duri, però, bisogna agire prima che se ne accorgano gli altri.

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