Se la crisi profonda in cui siamo immersi ci sta insegnando qualcosa quel qualcosa è che, per immaginare il futuro, è imprescindibile passare da quella che è stata definita la «politica del fare» ad una politica (e cultura) del «fare responsabile, giusto, equo e sostenibile». Questo passaggio ha oramai raggiunto lo stato di necessità e di urgenza dal punto di vista etico, sociale, ambientale ed economico; anziché essere visto come un’ulteriore difficoltà allo sviluppo, va considerato come approccio unico e necessario che possa portare, anche velocemente, ad un nuovo sviluppo più durevole e più solido. La questione della Torre Cardin pone quindi, prima ancora che di merito, una questione di metodo. Ciò che sorprende infatti è che pur parlando di una trasformazione fisica significativa e consistente il “dibattito” in corso ruoti essenzialmente attorno al valore monetario (peraltro oscillante) della cosidetta“grande occasione”. Nessuna considerazione sulla forma urbana, sul traffico, sull’impatto ambientale. Solo soldi, ma in questo caso di cemento, di un cemento che deve rimanere almeno mezzo secolo per potersi “ripagare”. Il pericolo di questa impostazione sta nel fatto che, soprattutto in un momento di crisi economica gravissima come quello attuale, il progetto e la discussione sul progetto vengano strumentalizzati in modo assoluto: o prendere o lasciare, la Torre Cardin o lo status quo cioè il degrado. Posta così la questione lascia lo stesso molti dubbi sia nel Consiglio Comunale che tra i cittadini ma porta inevitabilmente verso un consenso acritico cioè all’accettazione del meno peggio essendo oggi quel degrado già ampiamente insopportabile. È questione di metodo perché la città e i suoi cittadini non dovrebbero trovarsi di fronte ad un simile aut‐aut ma dovrebbero discutere quali opportunità la città intende offrire al mercato; costruire com‐porta e porta sempre molto denaro; si tratta di capire come, cosa e dove costruire; perché non si tratti di una “abominevole speculazione”ma per far sì che si tratti di una “importante occasione” il progetto (qualsiasi progetto di siffatta dimensione) dovrebbe creare , oltre che profitto immobiliare, ricchezza collettiva tramite l’apporto di nuove relazioni, l’introduzione di fattori di efficienza energetica, la creazione di nuovi collegamenti, di nuova socialità, di nuova urbanità che incrementa il senso civico del vivere sociale. Questi sono gli elementi che trasformano una qualsiasi operazione edilizia in qualcosa che rappresenta un vantaggio per la collettività. Se si partisse da questo presupposto allora il progetto dello stilista dovrebbe essere valutato in quanto progetto urbano, progetto di una parte di città importante. La discussione sarebbe virtuosa se, per quella preziosa parte urbana, si valutassero questo sì in un dibattito pubblico aperto alla cittadinanza l’ipotesi del grattacielo immerso in una distesa di parcheggi insieme con altre proposte progettuali alternative a quello schema. Il grattacielo isolato è “una delle” possibilità ma ve ne sono molte altre, forse più opportune, che andrebbero valutate, con la serenità del sapere che anche nelle altre “forme” ci sarebbero grandi capitali coinvolti, si creerebbero posti di lavoro, servizi, commerci, cioè sarebbero altrettanto “grandi occasioni” non piovute dal cielo ma saggiamente preparate ed indirizzate ad un obbiettivo condiviso. Forse si potrebbe discutere, in alternativa al grattacielo, di un intero quartiere innovativo, sostenibile, di un vero cuore pulsante del sistema Mestre‐Marghera che ha oggi un vuoto nella sua cerniera centrale – l’area della stazione ‐ e che la torre non farebbe altro che congelare per i prossimi decenni come “vuoto” della città al servizio della torre. Il centro di una grande città non si può trasferire nella lounge di un grattacielo, e tantomeno in un immenso parcheggio.
Sull’argomento vedi anche l’articolo di Somma