Partito il 14 luglio con un mio articolo, che non aveva (davvero) nessun'intenzione di aprire una discussione; proseguito nei due mesi o poco più che ci separano da quella data con una trentina di interventi, alcuni dei quali molto autorevoli (segretari di partito ed esponenti di varie frazioni politiche, importanti dirigenti sindacali e intellettuali di grido): il dibattito svoltosi sul sulle forme di una possibile, diversa unità della sinistra italiana si potrebbe definire un successo. Io ne ho avvertito soprattutto i limiti. Constato ad esempio che non è intervenuta nessun'esponente dei gruppi e movimenti femminili e/o femministi. Non sono intervenuti neanche i rappresentanti del cosiddetto «correntone», forse risucchiati nel gioco interno Ds. Non sono intervenuti (salvo un'eccezione) neanche i verdi: pensano che le tematiche ambientalistiche siano ancora autosufficienti? Non sono intervenuti neanche gli esponenti del riformismo moderato: forse pensano che non sia affar loro l'eventuale costituzione di un raggruppamento di sinistra distinto dal loro oppure lo guardano con sufficienza, pensando che l'idea sia fuori del mondo? Ma il limite più grande lo dirò alla fine.
Ripartirò dall'inizio, che a me era parso molto semplice, fin troppo elementare (e che del resto costituiva solo una minima parte del discorso): far dialogare e agire unitariamente quella sinistra che sta a sinistra delle convergenze riformiste-moderate (triciclo, partito unico riformista, ecc) ne aumenterebbe la forza e attenuerebbe il rischio di compromessi di basso livello. Aiuterebbe anche i movimenti - che la sinistra hanno contribuito in passato e continuano a rinnovare - a preservare la propria autonomia. Contribuirebbe a chiarire l'indirizzo programmatico dell'intero centro-sinistra, indirizzo che rimane ancora indefinito nonostente il «ritorno» di Prodi e l'annuncio di un'opposizione più chiara al governo di cui la programmata manifestazione del 6 novembre costituisce per ora il solo punto forte. Vorrei esser molto chiaro su questo punto: non si tratta di mettere in dubbio l'alleanza di centro-sinistra, che non ha alternative.
Si tratta al contrario di renderla più credibile e di rafforzarla in settori molto delicati dell'elettorato (quelli più colpiti dalla crisi economica), influenzandone il programma e spostandola al tempo stesso, come si diceva una volta quando esisteva una sinistra, a sinistra. Rafforzare e riequilibrare l'alleanza di centro-sinistra in questo momento è particolarmente essenziale, perché a metterla davvero in dubbio ci pensano le componenti moderate, che, anche dall'interno dell'Ulivo, lavorano sempre più alacremente per riaprire il capitolo del centrismo. Questo, mi permetto di dire, lo capirebbe anche un bambino. Ma spingiamoci di qui in poi un po' più in là di una semplice, limitata, per quanto utile, razionalizzazione del quadro politico della sinistra italiana. A me pare che il problema del rapporto fra le «due sinistre» è destinato a presentarsi prima o poi, anzi, si sta già presentando, mutatis mutandis, in tutta Europa. La distinzione (più o meno profonda) tra le due ali del riformismo poggia infatti su fattori oggettivi, addirittura di classe, oserei dire (anche se non proprio alla vecchia maniera), tipicissimi in questa fase proprio della situazione europea.
L'assenza di una formazione, magari confederale, che renda esplicita tale distinzione, senza necessariamente (anche in senso tecnico) estremizzarla, significa in parole povere che un pezzo della società occidentale è politicamente sottorappresentato: sia che ciò si manifesti nella forma della disaffezione alla politica; sia che il tasso di astensionismo nei ceti deboli resti elevato, nonostante tutti gli appelli; sia che si verifichino, in presenza di condizioni particolarmente negative, paurosi spostamenti di questo elettorato verso destra; sia che, quasi infallibilmente, i programmi dei vari centro-sinistra europei appaiano egemonizzati dalla componente moderata del centro-sinistra medesimo.
L'incontro tra le diverse frazioni (organizzate o no) di questa «parte» della sinistra (componente dialettica, a sua volta, ma non necessariamente antagonistica di uno schieramento più largo), sarebbe davvero impossibile, solo se fra esse (e soprattutto nella fetta di società che esse dicono di rappresentare) ci fossero differenze ideali e strategiche insormontabili. Ma è così? Nessuno può pretendere che si faccia qui l'elenco delle questioni su cui un'unità sostanziale, non estremistica e non ideologica, appare già oggi operante. Eppure un primissimo tentativo, di entrare nel merito bisognerà pur farlo.
Quando si dice - e lo dicono ormai anche alcuni dei riformisti moderati, e persino qualche centrista del centro-sinistra, - che non è più possibile sostenere la linea di un liberismo senza freni, spesso non ci si accorge di dire che il rapporto (nesso, conflitto, persino compromesso, lo si dica come si vuole, purché lo si dica) tra capitale e lavoro, invece di aver fatto il suo tempo, prepotentemente riemerge. Riemerge con esso il problema di una rappresentanza politica del lavoro. E con esso riemerge il problema del rapporto fra rappresentanza politica del lavoro e sindacato, rapporto entrato da più di dieci anni verticalmente in crisi in tutta Europa.
Una situazione del genere non è un residuo del passato (come qualcuno dice) ma nasce (o rinasce) precisamente all'interno di quel contraddittorio e tormentato processo che chiamano globalizzazione. Influenzare, spostare, determinare il rapporto capitale-lavoro (e di conseguenza quello fra capitale e ambiente, capitale e salute, capitale e sottosviluppo: da qui l'importanza del rapporto organico rossi-verdi), significa influenzare e determinare la globalizzazione e cambiarne il segno. E' per me del tutto evidente che la scintilla che ormai periodicamente incendia tutto il mondo, nasce dall'interno del sistema, perché all'interno del sistema non sono cresciuti gli anticorpi necessari a spegnerla. Non si può essere contro la guerra, se non se ne comprende e non se ne combatte la genesi profonda (che è dentro il sistema, non solo nel suo illimitato delirio espansivo).
La mancanza di regole, lo sfrenato avventurismo dei conservatori, l'incerta sempre più balbettante risposta dei riformisti moderati, fanno correre il rischio che una crisi politica si trasformi in una crisi di civiltà (la nostra) e che questa investa in maniera catastrofica la sfera dei valori, dei diritti e della stessa democrazia. La demoniaca volontà dell'Occidente capitalistico-democratico d'esportare all'esterno il proprio modello, svuota il modello e lo riduce ad un guscio vuoto, sempre più facilmente modificabile. La battaglia per i diritti torna a essere a sinistra di una portata epocale: la civiltà la difende la sinistra, perché non c'è più nessun altro che lo faccia. Lo dimostra ad abundantiam il radicale rifiuto della guerra, che solo a sinistra affonda senza ostacoli le sue radici (mentre il riformismo moderato su questo punto continua paurosamente ad oscillare).
Basta questa modesta sintesi a disegnare una linea di confine abbastanza precisa tra riformismo moderato e riformismo radicale e a precostituire le condizioni perché il riformismo radicale unisca le sue forze attualmente disperse? Può darsi che non basti: ma allora bisognerebbe dire onestamente perché e cos'altro serva perché basti. Bisognerebbe non aggirarsi intorno al problema, ma affrontarlo. O no?
Insinuo un'ipotesi negativa. Ecco qual è il limite più grande del nostro dibattito. Agostinianamente si potrebbe argomentare che il non potere discende dal non volere. Dubito fortemente che i protagonisti del dibattito sulle possibili forme dell'unità della sinistra sarebbero tutti disposti, messi alla prova dei fatti, a tradurre le parole in realtà. Se le cose stessero così, vorrei dichiarare una mia personale difficoltà. Sono anni che, a scadenze periodiche, si apre un dibattito sul modo di ripensare la sinistra, l'organizzazione politica, la realtà italiana ed europea, ecc: e poi si assiste inerti, ogni volta, alla dispersione in terra carsica del rivolo che sembrava essersi creato.
Beh, la pazienza e le forze (non solo mie, immagino) sono al termine. Ripropongo, in termini altamente e seriamente problematici, la questione iniziale: esiste o non esiste questa famosa sinistra diversa da quella che ora c'è ma che anch'essa domani potrebbe del tutto scomparire? E' pensabile, è tollerabile una situazione in cui non ci sia «sinistra»?
Se non faremo la prova, continueremo a non saperlo. E per saperlo dobbiamo almeno per una volta «materializzare» (sì, proprio nel senso letterale del termine) quella sinistra che dice di esserci e non vuole scomparire consensualmente nel nuovo raggruppamento moderato.
Propongo che ci sia, a breve scadenza, un momento e un luogo d'incontro per tutti coloro che si dichiarano e si sentono (e forse effettivamente sono, ma questo potremo saperlo solo dopo) a favore di un processo di avvicinamento e d'incontro (e forse di unificazione, ma anche questo potremo saperlo solo dopo) tra quelle forze della sinistra, che, sebbene disperse, continuano a resistere alla manovra riformistico-moderata.
Ma sia chiaro: non ci bastano più gli Stati maggiori (per quanto necessari), persino le forze organizzate esistenti ci appaiono in sé e per sé, per quanti meriti gli si debbano riconoscere, più come la struttura cristallizzata del nostro passato che come la prefigurazione vera e propria del nostro futuro. Se l'iniziativa serve a quella massa che sta al di qua e al di là di quella linea che separa attualmente una «politica organizzata» da una «politica non organizzata», e cioè (ripeterò questa parola fino alla nausea) serve fin dall'inizio a fare politica in modo nuovo, sarà utile, altrimenti no. Perciò dico che in casi del genere la quantità fa la massa critica e la massa critica precede il pensiero (e, forse, ahi, lo determina). Bisogna lavorare sulla massa critica che precede e determina la nascista di una nuova sinistra.