Mi ha fatto male, sinceramente, vedere il Presidente Napolitano a Torino, così blindato dentro e fuori. Senza la solita cornice di folla, in una piazza circondata da uno sproporzionato schieramento di polizia. Chiuso nel suo no al dialogo con i sindaci ribelli della Val di Susa (che pur rimangono l'espressione principe della rappresentanza popolare sul territorio) in nome di un indiscutibile ma fuori luogo nell'occasione «rifiuto della violenza», e tuttavia fotografato in Piazza Castello con alla destra il Governatore del Piemonte, considerato tra gli uomini della Lega più vicini al "capo" che appena il giorno prima aveva minacciato la vita del Presidente del Consiglio a nome di «tutto il nord» (sic!).
Considero quel rifiuto un atto politicamente miope, umanamente ingeneroso, culturalmente incomprensibile. Un gesto simbolico che non aiuta nella difficile soluzione del problema, confermando l'immagine sempre più diffusa di una crescente distanza, per usare un eufemismo, tra istituzioni e popolo. Di un'incapacità di ascolto fattasi ormai programmatica, e di un'autoreferenzialita irriducibile, tetragona, del ceto politico (anche ai rari livelli di eccellenza) paragonabile per certi versi a quella delle corti di ancien regime alla vigilia delle rivoluzioni moderne.
Eppure un minimo non dico di umiltà (difficile chiedere oggi umiltà a un politico di professione) ma di equanimità, imporrebbe di tributare alcuni significativi riconoscimenti alla gente della Val di Susa che si è opposta in questi ultimi vent'anni all' Alta Velocità. Per esempio oggi tutti riconoscono l'assurdità e l'insostenibilità economica e ambientale del primo progetto (quello che, sulla sinistra orografica della Valle, avrebbe dovuto forare, tra l'altro, il monte Musiné pieno di amianto e veleni con un costo complessivo di quasi 25 miliardi di euro). Quasi nessuno ricorda, però, che se quel progetto sconsiderato è stato fermato lo si deve ai "fatti di Venaus", dell'inverno 2005. E a quel gruppo di anziani montanari valsusini, picchiati a sangue, una notte, da un manipolo di agenti armati di ruspe e manganelli. Solo dopo quell'evento nacque l'oggi tanto celebrato Osservatorio, che almeno nella sua prima fase ha tentato di ricucire un dialogo.
Allo stesso modo nessuno, in alto, riconosce che il "secondo progetto" (partorito da quell'Osservatorio dopo l'epurazione della componente critica), oggi abbandonato per la sua conclamata insostenibilità finanziaria, era stato osteggiato, per quell'esatta ragione, proprio da quei comitati e quei sindaci che oggi si vuol far passare per visionari e prevenuti. Perché non dare loro, ora, un qualche credito quando sollevano obiezioni anche al terzo progetto, il cosiddetto low cost, visto che sui primi due ci avevano azzeccato? Perché non ascoltare almeno le loro osservazioni? Tanto più che intorno ai primi due progetti, oggi giustamente abbandonati, si erano schierati a suo tempo, entusiasticamente e come un sol uomo, tutti i decisori pubblici di allora - presidente della regione, sindaco di Torino, capo della provincia -, mai sfiorati da nessun dubbio. Pronti a «tirare dritto per la loro strada, anche se la strada non c'e», come recita una brutta pubblicità automobilistica.
Aggiungiamo ancora che la promessa, avanzata ieri, di attivare forme di controllo sistematico contro le infiltrazioni mafiose nei cantieri e negli appalti delle Grandi opere, arriva solo dopo la settimana di passione della Valle. Nessuno (nessuno!) dei tanti politici e amministratori fautori della retorica della legalità aveva mosso un solo passo concreto in questa direzione. C'e voluta la tragedia di Luca Abbà per arrivare a questo doveroso (anche se tardivo) provvedimento, per ripristinare un minimo di legalità nella jungla degli appalti sponsorizzati dalla politica.
Per questo il "gran rifiuto" di Torino suona così ingeneroso. E inopportuno, io credo, anche dal punto di vista di un freddo realismo politico. Il TAV non può essere ridotto a questione di ordine pubblico, come va ripetendo ormai fino alla noia chiunque abbia un minimo di buon senso. Su quel terreno il problema non ha soluzione: vent'anni di cantieri in un territorio militarizzato sono un incubo che nessuno può accettare. E dunque quei sindaci "diversi", che tuttavia condividono un comune sentire con i loro amministrati, sono una risorsa da non sprecare. Restano un sia pur tenue canale di comunicazione tra alto e basso. Non possono essere tenuti fuori dalla porta. Se non con un cavalierato (come meriterebbero) per lo meno con un'udienza devono pur essere riconosciuti.