L’appello per un “nuovo soggetto politico” apparso sul manifesto di giovedì 29 marzo merita risposte favorevoli e molto lavoro per andare avanti: compresi alcuni chiarimenti. Indica la direzione giusta quando afferma che non si tratta di aggiungere un’ennesima sigla a quelle esistenti (né, sembra, di sottoporre agli elettori un’ulteriore opzione tra le altre) ma, piuttosto, di concorrere insieme all’aggregazione e all’auto-riconoscimento di una “nuova soggettività”, unificata e unificante. Questa nuova soggettività non dovrebbe comprimere le diverse esperienze e le diverse culture dell’opposizione antisistemica in Italia ma, al contrario, farne un patrimonio da valorizzare.
Il lavoro che resta da fare insieme (insieme, innanzitutto, con i promotori dell’appello) consiste allora nel chiarire come concretamente realizzare queste intenzioni. E’ chiaro (e sembra chiarito) che non si tratta di competere con i partiti del “centro-sinistra” classico (FdS, Sel, IdV, fino allo stesso PD), ma di rimettere a nuovo lo “spazio pubblico” in cui tutti ci muoveremo. Questo, però, può avere molti significati. Il successo dell’operazione dipende dalla capacità di individuare concretamente il significato giusto. E’ vero che i partiti (tutti, piccoli e grandi, dentro e fuori il parlamento, più o meno, per una ragione o per l’altra) non stanno bene e non sono del tutto salubri. Soprattutto, non rappresentano ormai che in minima parte i sentimenti e i bisogni delle persone. Tuttavia esistono; e di ciò si deve tenere conto in un modo o in un altro. Se si chiede loro di collaborare al proprio superamento (e non sarebbe la prima volta), non si può certo aspettarsi che rispondano con entusiasmo. Proprio questo, dopotutto, è stato il dramma del pur generoso tentativo di imporre una lista unitaria dal basso, e non dal vertice, che rappresentasse veramente il sentire comune dell’opposizione antisistemica, in vista delle elezioni europee del 2009 (una generosità da non dimenticare, e un fallimento su cui meditare). Si dovrebbe dunque semplicemente ignorare i partiti esistenti? E come evitare che una tale scelta porti proprio dove si afferma di non volere andare, cioè a una sigla ulteriore, e a una lista concorrente?
L’appello muove dal presupposto che lo spazio pubblico non coincida necessariamente con lo spazio politico. Si rivolge a una rete civica che già da tempo fa a meno della politica organizzata così come oggi si presenta, e su questo terreno ottiene successi quasi esaltanti come nei referendum sui beni comuni, e nell’elezione dei sindaci di importanti città, lo scorso anno. L’operazione è interessante, e l’analisi che l’Appello ne fa non lo è meno. Cercando di andare un po’ oltre, vi si può riconoscere un tentativo di contrastare il blocco storico dominante a livello globale con i suoi stessi metodi. Infatti, da quando esistono cose come la Commissione Trilaterale, i portatori degli interessi esclusivi del capitale e della proprietà hanno trovato e usano il modo di passare attraverso uno spazio politico depotenziato e svuotato (malgrado talune sue apparenti e formali blindature) con sovrana indifferenza. E’ interessante e stimolante considerare che i portatori degli interessi del lavoro e dei beni comuni, che sono la maggioranza perdente e disgregata da alcuni decenni, possano e dovrebbero forse cercare di fare qualcosa di simile. E’ improbabile, però, che abbia senso fare esattamente la stessa cosa; si deve temere che ci sia un’insuperabile sproporzione di forze.
Quale ruolo possono avere gli esistenti partiti, che in questo o quel modo echeggiano il superato ma non insensato modello novecentesco di organizzazione politica dei non proprietari (per le cui esigenze, in fondo, i partiti novecenteschi furono innanzitutto inventati, per essere poi imitati dagli avversari in un primo tempo)? Di essi si può e si deve dire molto di negativo, oggi. Ma deve esserci un modo in cui le energie e le esperienze che ancora contengono (al limite, alcune fondate esigenze di cui sono portatori in modo più o meno stanco e irrigidito) siano chiamate e sollecitate a concorrere. In un modo o nell’altro, l’opposizione antisistemica ha bisogno di essere più organizzata (al limite un po’ più “pesantemente” organizzata) di quanto il potere del capitale possa concedersi di non essere. Le forme possono e certamente devono essere nuove, più mature, più ricche e più cariche di libertà, di diversità e di autonomie. Ma il problema resta.
L’esperienza del 2009 resta ancora, in questo senso, da studiare fino in fondo: la domanda, cioè, che la sinistra diffusa nella società civile rivolse allora ai partiti per essere ascoltata, e per avere uno spazio entro cui rappresentarsi e rendersi efficace dentro e fuori di essi, in tutta la sua vastità e in tutta la sua complessità. Perché, allora, i partiti (nello specifico, la “Sinistra e Libertà” di allora, Rifondazione, e il PdCI) non capirono? Come evitare di ripetere oggi quello scontro sterile? La strada maestra del nuovo spazio pubblico democratico può consistere nel caricare, riempire, alimentare lo spazio politico (e in particolare i partiti) di impegni e parole d’ordine vincolanti, in modo trasversale. Si tratta cioè di un’operazione formalmente analoga a quella vittoriosamente condotta dal capitale nel corso degli ultimi decenni. Mentre però il capitale poteva (e forse doveva) effettuarla svuotando e depotenziando la politica, noi dobbiamo effettuarla, al contrario, mirando a darle nuova vita.
prima idea, per muoversi in questa direzione, può consistere nel proporre e al limite imporre ai partiti della sinistra un rapporto nuovo con il loro elettorato potenziale. Le liste elettorali siano cioè il prodotto di un’ampia consultazione (vere e proprie primarie), e i candidati, quale che sia il simbolo sotto il quale correranno, siano legati da un patto tra loro e con gli elettori che equivalga a un vero e proprio vincolo di mandato, su un breve ma chiaro decalogo delle semplici e grandi cose in cui l’opposizione antisistemica si riconosce. Perché non volerlo? Perché non tentare?