Ancora un commento al libro di Carlo Galli, “Sinistra”, a proposito del quale si discuterà ancora a lungo
. Micromega, 1/2013
Che cosa sta succedendo nella bolognese “repubblica delle lettere” de il Mulino? Ossia in uno dei pochi luoghi nazionali in cui si coltivavano da almeno un cinquantennio analisi e ibridazioni culturali come esercizio di progettazione politica. Ce lo si chiede visto che alcuni tra i più autorevoli politologi della terza generazione di questa comunità, con annessa casa editrice, negli ultimi tempi scelgono di pubblicare altrove: lo ha fatto Piero Ignazi per Laterza, lo fa ora Carlo Galli con Mondadori. Forse i sospettosi potrebbero trovare una chiave interpretativa nel fatto che Galli è candidato alle prossime elezioni nel listino di Bersani mentre Michele Salvati, sull’ultimo numero della rivista bandiera del gruppo editoriale di cui è direttore, ha fatto coming out a favore di Mario Monti («… concludo con una tesi di cui sono convinto, e che qui esprimo a titolo personale: che la prosecuzione dopo le elezioni di un governo Monti potrebbe fare ancora bene al nostro Paese… non è ancora venuto il momento di sostituire Bersani a Monti» [3]).
Sia come sia, eccoci con la recentissima opera sull’ormai araba fenice della bella politica – la Sinistra – cui Galli dedica 160 pagine; per due terzi centrate sul “come eravamo” e per il restante terzo dedicato al “come potremmo essere”: un saggio molto filosofico che evolve a pamphlet appassionato, sempre in un linguaggio sostenuto (dove abbondano estese catene di antinomie: pour un tel inventaire/ il faudrait être un Prevert, borbotterebbe Georges Brassens).
Il senso complessivo del ragionamento può essere sintetizzato in due tesi:
A. Il Novecento ha conosciuto quattro rivoluzioni (Comunismo, Fascismo, Keynesianesimo dello Stato Sociale e Neoliberismo), nell’ultima delle quali si è verificata un’apparente spoliticizzazione mercatistica che ha marginalizzato la Sinistra politica;
B. La fuoriuscita dall’ormai evidente crisi NeoLib può avvenire soltanto grazie a una “quinta rivoluzione” (un New, New Deal) che metta radici in un rinnovato blocco sociale facendo perno nella rivalorizzazione del lavoro.
Per quanto riguarda la prima tesi, apparentemente innegabile, si può semmai puntualizzare che – in effetti – non si è trattato di marginalizzazione, quanto di sottomissione all’egemonia dell’economico del personale dei partiti formalmente collocati sul fronte sinistro, interpretabile in vari modi: interiorizzazione pavlovizzante del mito de “il senso della storia”, da cui il riflesso condizionato di stare sempre dalla parte dei (presunti) vincitori? Opportunismo carrieristico da Terza Via? Omologazione in un ceto politico indistinto, intimamente solidale nella difesa dei propri privilegi? Vedete un po’ voi. A parere dello scrivente la spiegazione più attendibile la si ricava da una chiosa a margine del secondo item: per quale motivo il lavoro, da grande protagonista della dialettica sociopolitica otto/novecentesca, è diventato un soggetto desaparecido.
Di conseguenza, le organizzazioni partitiche che traevano i propri successi dal radicamento in questa parte sociale hanno ritenuto più conveniente rivolgersi altrove. Veniamo così al punto: Galli sostiene che «non aver posto l’accento sul lavoro con sufficiente convinzione, aver accettato la subalternità del lavoro e le disuguaglianze sociali, è stata una delle maggiori cause di debolezza della sinistra» (pag. 135). Tesi ovviamente condivisibile. Con un però. Messo in risalto – guarda caso – dall’intellettuale italiano che ai suoi tempi fu sovreccitato portabandiera dell’operaismo, Toni Negri. Quello che nel 1977 scriveva «sono gli operai del Sud che emigrano piuttosto che accettare la miseria pianificata del sottosviluppo, sono gli operai della fabbrica verde del Nord che impongono, premendo sulle metropoli, l’estensione dell’occupazione e dei servizi e ne sconvolgono le capacità di controllo amministrativo – queste sono le forze che vengono a costituire l’operaio-massa, stravolgendo sconfitte parziali in una vittoria strategica di massa» [4]. Ora il medesimo teorico estetizzante dell’antagonismo, in collaborazione con l’alter ego Michael Hardt (ma esisterà davvero? A volte penso si tratti di un personaggio di fantasia, come l’Ida Omboni coautrice di Paolo Poli…), promuove una tesi diametralmente opposta: «per potere parlare di nuova sinistra, oggi dobbiamo innanzitutto esprimerci nei termini di un programma postsocialista e postliberale, basato su una rottura materiale e concettuale – una frattura ontologica – rispetto alle tradizioni ideologiche del movimento operaio, delle sue organizzazioni e dei suoi modelli di gestione della produzione» [5].
Insomma, il “potere costituente” su cui edificare la rivoluzione postliberista dove sta, nella moltitudine o nel lavoro organizzato/rappresentato? Sempre a parere dello scrivente, frammenti di verità galleggiano tanto nella tesi di Galli come in quella di Negri, a patto di uscire dai filosofemi (hegheliani o spinoziani) e ragionare in termini di crudi rapporti di forza e poste in gioco.
Al lavoro in quanto tale le donne e gli uomini concreti possono chiedere moltissimo; tanto dal punto di vista psicologico (senso e significati, identità/dignità) come economico (emancipazione e risarcimenti materiali). Tuttavia la conquista di una soggettività dotata della potenza che si fa cambiamento discende soltanto da precise condizioni posizionali, già verificatesi in una fase storica ma che attualmente non sono più presenti: essere al centro dei processi di riproduzione della ricchezza; appunto, come al tempo del capitalismo industrialista (fordista). In altre parole, quando le lotte del lavoro imponevano alla controparte datoriale mediazioni al rialzo; che si traducevano in conquiste collettive, generali.
Ahimé, la stagione di finanziarizzazione capitalistica e il nuovo modo di produrre transnazionale, alla ricerca dei residui eserciti di riserva del lavoro da irreggimentare in forme servili, ha disarmato il lavoro attraverso l’innovazione tecnologica e organizzativa; al tempo stesso sottomettendo la politica, ormai trasformata in caporalato del consenso in quanto subalterna ai poteri plutocratici e mediatici.
Sicché possiamo dare ragione a Galli quando propugna una «ripoliticizzazione delle istituzioni: la politica deve essere capace di nuova autonomia, cioè di nuovo orientamento e governo» (pag. 156). Per cui diventa essenziale l’aggregazione (in un nuovo “blocco storico”?) di componenti sociali attualmente oscillanti tra due stati d’animo politicamente inerti: l’indignazione e il fatalismo.
Ma tutto questo ben difficilmente potrà realizzarsi permanendo all’interno di uno specifico ordine (tardo capitalistico) – quale quello vigente – che presuppone priorità d’agenda, stili di vita e consumo, forme verticistiche del comando; un plesso inestricabile di poteri micro e macro, innanzitutto sotto forma di pensiero pensabile, che si è trasformato in “dente d’arresto” per ogni effettivo cambiamento in senso democratico.
Negri e Hardt auspicano una “nuova scienza della società”. Più modestamente l’autore di queste note pensa a una rinnovata fisiologia dell’antagonismo sociale, che riproponga la corretta circolazione tra movimenti e istituzioni. E qui compare una parola a cui lo stesso Galli ricorre sovente: conflitto, il grande motore della trasformazione sociale. Anch’esso desaparecido. «Destra e Sinistra permangono perché la politica moderna e contemporanea non è dogmatica o monolitica, ma indeterminata e conflittuale… intorno ai presupposti e alle finalità stesse dell’agire politico. Che sono, in sintesi, il primato dei doveri (la Destra) oppure dei diritti (la Sinistra)» [6]. Alla faccia della presunta obsolescenza dei due termini fatali.
Ma per esserci conflitto – non protestarismi rituali – occorre individuare il “punto archimedico” in cui l’insorgenza sociale tocca nervi sensibili e diviene significativa leva di cambiamento. Come al tempo industrialista; quando – ad esempio – lo sciopero non era ancora un’arma spuntata.
Note
[1] S. Žižek, Dalla tragedia alla farsa, Ponte alle Grazie, Milano 2010 pag. 187
[2] in G. Galletta, Il mondo non è una pesca, Socialmente, Granarolo dell’Emilia 2010 pag. 63
[3] M. Salvati, Mario Monti e un governo per l’Italia, il Mulino 6/2012
[4] A. Negri, La forma stato, Feltrinelli, Milano 1977 pag. 20
[5] M. Hardt e A. Negri, Moltitudine, Rizzoli, Milano 2004 pag. 256
[6] C. Galli, “L’attualità di Destra e Sinistra”, la Repubblica 18 novembre 2010