Anche se nulla ancora emerge dall’informazione televisiva che ci inonda con le immagini delle inaugurazioni delle case per i terremotati dell’Aquila, il tragico fallimento dell’esperienza guidata da Bertolaso sta iniziando ad essere evidente a tutta la popolazione aquilana, anche a quella che aveva creduto alla favola delle new town. Ma proprio quando gran parte della stampa grida al miracolo della realizzazione di (poche) case in tempi rapidissimi, come è possibile parlare di fallimento? È che nella popolazione abruzzese inizia a rendersi evidente la cinica disinvoltura con cui il governo li priverà per molti anni a venire del bene più prezioso che essa aveva: le città, i borghi, i centri storici.
Una popolazione che era abituata a vivere in luoghi in cui le relazioni umane erano rese possibili e facilitate proprio dai luoghi urbani, inizia a toccare con mano che dovrà abituarsi a vivere per molti e molti anni in condizioni di isolamento sociale, con le difficoltà a risolvere anche le esigenze primarie come quelle degli acquisti o dell’uso dei servizi pubblici. In quelle che hanno chiamato spudoratamente new town esistono solo abitazioni e nessun presidio sociale. Le città si riconoscono per i servizi sociali, ma questo ai liberisti fa evidentemente orrore. Se si tiene poi conto che buona parte di quella popolazione è anziana e non è in grado di spostarsi autonomamente con l’automobile, si comprende di quale misfatto si sia macchiato il governo.
Non saranno dunque i fuochi artificiali di questi giorni a cancellare l’infamia di aver scelto deliberatamente di trasferire in luoghi isolati, senza alcun servizio pubblico, senza la minima dotazione di quelle attrezzature private che rende gradevole (o almeno meno disagevole) la vita di tanti cittadini aquilani. E la condanna della popolazione sarà senza appello perché, come racconta nel suo bel libro Giovanni Pietro Nimis (Terre mobili, Donzelli editore, 2009), le alternative esistevano. Gli straordinari esempi di ricostruzione da eventi sismici sperimentati negli altri tragici casi (Friuli 1976 e Umbria-Marche 1997) sono lì a dimostrare che in tempi contenuti e con il coinvolgimento pieno delle popolazioni locali sono stati raggiunti risultati straordinari con un consenso generalizzato. Il Friuli è un esempio celebre di rinascita di una popolazione. I centri antichi dell’Umbria e delle Marche sono di nuovo vitali e abitati. Le case sono state rese sicure. Si obietterà che le popolazioni hanno dovuto passare qualche anno in scomodi container. Ma la scomodità era resa meno acuta dalla vicinanza alla propria abitazione, dall’essere localizzati all’interno dei luoghi urbani, dalla condivisione con le stesse persone con cui si erano condivise vite di relazioni,. L’assegnazione delle case abruzzesi è avvenuta per sorteggio: la vita ridotta ad una tombola a premi in cui guadagnano soltanto coloro che stanno realizzando alloggi che costano 2.800 euro a metro quadrato a fronte dei mille con cui si costruisce in ogni luogo d’Italia.
Così, famiglie che abitavano in un luogo conosciuto e misurabile nella vita di ogni giorno saranno costrette a vivere da tutt’altra parte, in tanti luoghi periferici scelti in base alla disponibilità dei suoli e non sulla base di un ragionamento sul futuro di una comunità urbana. E questo avviene senza che nulla si sappia sui tempi e sulle modalità della ricostruzione dei centri antichi, ad iniziare da quello de L’Aquila. Insomma pochi cittadini abruzzesi si vedono assegnare una casa mentre tutti non hanno ancora alcuna certezza su quando partiranno i lavori per la ricostruzione delle loro meravigliose città. A sei mesi dal terremoto del 1997, le due regioni coinvolte avevano già deciso criteri e suddiviso i centri da ricostruire in comparti operativi. A sei mesi dall’evento del 6 aprile 2009 sono state consegnate solo poche case. Ad un ragionamento organico si è sostituito un gesto teatrale sotto gli occhi delle televisioni. La complessità della città è stata sostituita dalla semplificazione di case in desolate periferie.
In questi giorni in cui Il Manifesto sta svelando la impressionante ragnatela con cui imprese blasonate hanno inquinato tanti luoghi del nostro paese. Mi hanno colpito le frasi di un colloquio di due malavitosi che parlavano dell’affondamento delle navi dei veleni lungo le coste calabresi. Dice il primo che a causa dell’affondamento il mare si guasterà per sempre. Il secondo risponde che con tutti i soldi guadagnati potranno cercare mari lontani e puliti. L’inquinamento, insomma, non li riguarda. Anche in questo caso la distruzione chissà per quanti anni delle comunità urbane non coinvolge i decisori. Nelle periferie de L’Aquila ci andrà la parte debole della società. Mica loro.