Che Sandro Bondi non concorresse al titolo di “Miglior Ministro dei Beni Culturali”, ci era noto da tempo. Per molti mesi dal suo insediamento gli osservatori e gli operatori del mondo dei beni culturali e quanti semplicemente hanno a cuore le sorti del nostro patrimonio hanno stigmatizzato la sua assenza: Bondi troppo impegnato sul versante partitico ha per lungo tempo dedicato al proprio Ministero un’attenzione distratta, casuale e spesso puramente ideologica tanto da abbandonare il nostro patrimonio, in più di un oscuro passaggio, nelle mani della “cricca”. Clamoroso il caso del commissariamento per i Grandi Uffizi a Firenze, mentre le procure sono ora al lavoro sul Petruzzelli di Bari, sulla ricostruzione all’Aquila e su quella gestione commissariale di Pompei che ogni giorno di più, consegna alle cronache nuovi esempi di finanza allegra.
In questa latitanza, spiccano, per caratterizzazione “ideologica” appunto, i provvedimenti di reale tutela, poche medaglie al valore ma ripetutamente sbandierate: ma se il Pincio, non appena transitato sotto l’amministrazione Alemanno è stato doverosamente salvato dallo sventramento, non altrettanto è successo a Milano, dove il ministro non ha minimamente contrastato lo scempio inaudito del parcheggio di Sant’Ambrogio fortemente voluto dall’amministrazione Moratti.
Nella mancanza complessiva di una visione culturale, se non proprio di una politica, unico esempio di direttiva è stato rappresentato dall’accentuazione esasperata delle pratiche di valorizzazione, culminate con la nomina di apposito manager e codazzo annesso di pubblicitari che in nome del marketing in un anno e mezzo di attività hanno saputo produrre, fra continue fanfare mediatiche, solo qualche bislacca campagna promozionale per rendere ancor più appetibili i monumenti icona del nostro patrimonio già oppressi da una pressione antropica che non ha mancato di provocare i primi segnali di cedimento (v. per tutti il Colosseo e i suoi problemi di degrado).
Alla stessa visione pubblicistica (essendo il marketing vero e proprio comunque collocato su un altro livello di complessità), è ben presto risultata ispirata anche la pratica dei commissariamenti dei principali siti e monumenti nazionali, attraverso la quale si è tentato uno smembramento del patrimonio fra beni di serie A, economicamente fruttuosi e beni di serie B (il 90% dell’immenso patrimonio culturale italiano) non monetizzabili e quindi abbandonati, dopo i ripetuti tagli di bilancio, ad un incerto destino. Il caso degli Uffizi e gli eventi recentissimi di Pompei rappresentano gli esiti, dolorosi e internazionalmente conosciuti di questa “sperimentazione”.
I commissariamenti hanno costituito peraltro l’iniziativa più fragorosa, ma non l’unica di un disegno di dismissione complessiva del sistema delle tutele, che si è incarnato in una serie di provvedimenti, meno clamorosi ma ancor più devastanti, tesi a ridurre e imbrigliare il ruolo delle Soprintendenze in materia di tutela del paesaggio. Proprio in questo settore cruciale a salvaguardia non solo del nostro patrimonio culturale, ma del tessuto delicatissimo del nostro territorio, Sandro Bondi ha di fatto accettato di confinare il proprio Ministero in un ruolo di totale irrilevanza politica e di sudditanza acritica nei confronti dei Ministeri dell’Economia e delle Infrastrutture. Dal piano casa al federalismo demaniale, dalle “semplificazioni” amministrative – autorizzazione paesaggistica e Scia – alle così dette linee guida sugli impianti di energie rinnovabili, con accelerazione crescente negli ultimi mesi, i già fragili organismi della tutela sono stati investiti da una serie di provvedimenti ambigui, spesso tra loro contraddittori e tutti però ispirati alla politica del laissez faire e della facilitazione dell’iniziativa privata a qualsiasi progetto applicata.
Già in passato avevamo denunciato, a partire dal Primo rapporto nazionale sulla pianificazione paesaggistica, questa deriva anticostituzionale che, complice il Ministro, tendeva a sovvertire la primazia dell’art. 9, rispetto ad altri interessi che non fossero quello pubblico, il principio guida che da Benedetto Croce a Concetto Marchesi, ha ispirato i legislatori e i padri costituenti.
Ripetute e ormai rituali affermazioni di “disponibilità” alle esigenze del progresso comunque inteso da parte della dirigenza Mibac, documenti ufficiali di imbarazzante livello culturale in cui alla tutela vengono sostituite le “buone maniere” fino a giungere a quest’ultima esplicita dichiarazione dello stesso Bondi. Coi toni ormai consueti di acrimonia e arrogante furore con i quali si rivolge a chiunque si permetta critiche al suo operato (l’episodio delle dimissioni di Salvatore Settis segnò, da questo punto di vista, una svolta verso una deriva da minculpop sempre più pesantemente applicata da allora in poi) il Ministro, in uno sbracamento culturale totalmente esplicito, identifica la propria mission nella facilitazione coute que coute della funzione infrastrutturale ed edilizia del territorio che non deve essere ostacolata da “ritardi” derivanti da fastidiosi reperti.
E’ la versione riveduta e corretta come neppure i più tendenziosi fautori della libera impresa avrebbero potuto sperare, di un art. 41 cui è stato assoggettato l’art.9, ridotto al ruolo di accessorio esornativo.
L’uomo sbagliato, dunque, al posto sbagliato: dopo queste ultime dichiarazioni non c’è altra possibilità di salvezza per il nostro patrimonio che le dimissioni di Sandro Bondi.
Per questo eddyburg si unisce all’appello a Napolitano promosso da Assotecnici e invita tutti i suoi lettori a firmarlo.
Per firmare l'appello Per Pompei e la cultura