Sono tornata sull’Appia Antica, al termine di una arroventata giornata romana. Un po’ per caso, un po’ per desiderio.
Mentre gli ombrelli dei pini incupivano, la Regina Viarum ha di nuovo dispiegato il suo fascino davvero inesauribile, quello che la fece prescegliere, quale inarrivabile quinta seduttiva, da Roberto Rossellini per l’ingresso in Roma al fianco di Ingrid Bergman appena sbarcata, per lui, dall’America (era il 1949).
Mio obiettivo era la visita alla nuova sede del centro di documentazione dedicato ad Antonio Cederna, finalmente alloggiato in quella che era la sua strada. Quasi una sorta di pellegrinaggio in un luogo da lui così amato, tanto da essere definito, fin dai tempi del Mondo, “appiomane”, luogo percorso e ripercorso, studiato e annotato in ogni metro, strappato lembo a lembo, dalla forza delle sue parole e dei suoi interventi, alla speculazione e al degrado.
In queste settimane, in preparazione di un volume di saggi che l’Istituto Beni Culturali intende dedicargli, i suoi scritti mi hanno accompagnato soprattutto durante gli spostamenti; letture in ordine sparso, senza criterio e senza metodo, riprese in più tempi e in situazioni diverse: in viaggio sui treni, ad alcune riunioni (molto noiose), durante le attese degli aeroporti, ai tavolini del Gambrinus (molto scomodi), a cala Garibaldi.
La produzione letteraria di Cederna, costituita per lo più da articoli su quotidiani e settimanali, poteva ben prestarsi ad un esercizio così frammentario. Eppure rileggendo quelle pagine, assieme al disagio crescente spesso provocato da certe descrizioni, risultato certo dell’efficacia della sua prosa, ma ancor più dell’ineluttabilità e dell’evidenza, così attuale e così scomoda, di certe conclusioni e di molte previsioni, uno dei caratteri che mi hanno più colpito è che l’opera di Cederna, pur procedendo per episodi circoscritti - per carattere editoriale e diversificazione di soggetti - possiede una propria straordinaria organicità tanto da risultare persino monolitica quanto a coerenza ideologica.
Cederna tende, fin dalla prima fase della sua attività, a inquadrare gli episodi che descrive, i fenomeni che analizza, in un orizzonte più vasto, per risalire alle cause, certo, e perché possiede una concezione sistemica del territorio e dei suoi problemi. Il territorio è quindi un sistema complesso e fragile in quanto tale, perché in esso ogni elemento che vi viene alterato ne scompone tutto l’equilibrio come nel più delicato degli ecosistemi. E di conseguenza i centri storici sono da interpretare non come insieme di monumenti eccellenti, ma nell’insieme del loro tessuto connettivo, come articolazione organica, complesso contesto di strade e palazzi e così i beni culturali non come emergenze isolate, ma inseriti nel problema più complesso delle città e del paesaggio.
Allo stesso modo Cederna contesta, come arretrata e dannosa, la visione della natura come paesaggio, a sua volta inteso come sommatoria di panorami e quindi quasi esclusivamente interpretato nelle valenze estetiche. Possiede, è stato detto, una visione strategica dell’urbanistica nella quale individua lo strumento privilegiato per il governo del territorio.
Questi elementi si coniugano del resto all’evidenza della sua attualità, tante volte proclamata e raramente interpretata, forse perchè fastidioso sintomo della nostra cattiva coscienza di cittadini distratti e della nostra pigrizia intellettuale. Ma Cederna non è attuale solo perché molte delle sue battaglie sono purtroppo ancora aperte, perché molte delle sue accuse e delle sue descrizioni potrebbero essere riproposte tal quali a 20, 30 40 anni di distanza, lo è ancor più proprio nella capacità di inquadrare i tanti episodi e fenomeni, per lo più negativi, riportandoli sempre ad una analisi complessiva e a ragioni strutturali con le quali ci ritroviamo a fare i conti ancor oggi.
E bisogna leggerle, le date di questi articoli in cui sulla stampa periodica e quotidiana Cederna veniva componendo il suo ritratto - Iliade e Odissea assieme - dell’Italia del dopoguerra, del boom economico, di tangentopoli.
Fra i primi a capire, con assoluta tempestività di analisi, che le arretratezze delle nostre città in campo urbanistico sono il perverso effetto della costante difesa della rendita fondiaria a livello politico – legislativo; in anticipo su tutti, a livello di comunicazione di massa, diffuse concetti come quello della irriproducibilità e fragilità del suolo. E in controtendenza con il provincialismo che caratterizzava la nostra stampa (e la nostra cultura) pose da subito grande attenzione alle esperienze più avanzate, in campo urbanistico, di ambito europeo - Amsterdam, Stoccolma, Copenaghen, Zurigo - a più riprese additate come modelli a cui ispirarsi.
Né apocalittico, né integrato, Cederna, come è stato ricordato in questi giorni, non fu mai solo un critico e un oppositore del mutamento, ma studioso in grado di proporre anche soluzioni operativamente efficaci e concretamente realizzabili (il parco dell’Appia, la proposta di legge per Roma Capitale). E i suoi scritti di sintesi si concludono quasi sempre con un’agenda propositiva, in cui il primo punto è invariabilmente dedicato alla necessità di censire, studiare, documentare: conoscere di più per fare meglio. La sua azione sempre combattiva e dispensatrice di idee, di iniziative, di alternative non è quella di un semplice conservatore: è per lo sviluppo guidato dalla mano pubblica, per una città moderna ispirata ai criteri dell’urbanistica di stampo nordico che vive accanto alla città storica e per questo ne permette la conservazione nella maniera migliore e più congrua per uno sviluppo ordinato e vitale delle proprie funzioni e in cui la qualità della vita sia garantita a livelli decorosi per tutti.
Proverbiale la sua pignoleria nella documentazione e nell’elaborazione scritta (7 ore a cartella, il minimo prescritto per ottenere un risultato decente) e l’attenzione che si percepisce per il materiale iconografico, non accessorio, ma parte integrante delle sue analisi.
Nel 1949 comincia la collaborazione al Mondo sulle cui pagine prende a denunciare, fra l’altro, l’urbanizzazione selvaggia che si scatena negli anni delle ricostruzioni postbelliche. L’attività di Cederna, così come è stato messo in rilievo da Francesco Erbani, è perfettamente complementare all’ideologia progressista e laica del periodico di Pannunzio, che in quegli anni veniva denunciando le arretratezze culturali della classe politica e di quella accademica quando non la loro acquiescenza agli interessi privati più retrivi ed aggressivi e i guasti di un capitalismo distorto che si poneva al riparo dal rischio d’impresa rifugiandosi nella passività della rendita immobiliare e fondiaria o nella corruzione.
Intanto nasce Italia Nostra (è il 1955) e Cederna ne è tra i fondatori e sarà sempre uno dei soci più attivi: per Italia Nostra, negli anni, scriverà alcune delle sue sintesi più efficaci e di assoluto rilievo storico.
Nel 1956 esce la prima raccolta degli articoli pubblicati sul Mondo, I vandali in casa: dove ritroviamo le tesi di fondo incessantemente ripercorse e riproposte nell’arco di oltre quarant’anni: quelle per una pianificazione come metodo imprescindibile e garanzia di trasparenza e democraticità; per la tutela della natura e del territorio nel suo complesso perché bene “non reintegrabile”; il nesso di complementarietà fra antico e moderno per cui, per salvare l’antico, bisogna saper costruire il moderno secondo i criteri di un’urbanistica modernamente intesa. L’incipit dei Vandali in casa è una chiamata alle armi a partire da una separazione netta fra chi è vandalo e chi non lo è. Cederna si propone di organizzare contro i distruttori del bello una vera e propria ‘persecuzione metodica e intollerante’. E inizia una delle battaglie di fondo che caratterizzerà la sua attività nel tempo: quella per la diffusione di una cultura, urbanistica e non, più moderna e per l’incremento di una sensibilità più attenta e profondamente motivata per i temi della tutela dei beni culturali e, in sostanza, per l’allargamento, nell’opinione pubblica, del sentimento di riappropriazione del patrimonio collettivo di città e paesaggio.
Ma nell’introduzione ai Vandali è anche l’esposizione di uno dei suoi temi privilegiati: la conservazione integrale dei centri storici, premessa obbligata alla loro tutela: la città è cultura, “civiltà stessa del vivere e del costruire”. Da questi assunti trovano linfa, ad esempio, le straordinarie vittorie contro gli sventramenti capitolini di via Vittoria.
Nella furia accusatoria Cederna non fa sconti a nessuno: gerarchie ecclesiastiche, organi di tutela deboli e neghittosi, amministrazioni pubbliche (quella capitolina in primis), classe politica e accademica nel loro complesso, fra cui spiccano, per ignoranza e boria, gli architetti.
Ma oltre che per la solidità e la novità dei contenuti, la polemica cederniana si distingue e si distinguerà sempre per la cifra stilistica che la connota e che ne costituisce elemento di efficacia e riconoscibilità immediato. Nella sua prosa di carattere oratorio e dall’aggettivazione incalzante, i toni variano dall’indignazione all’ironia più acuminata, al sarcasmo vero e proprio: in certi casi Cederna predispone, con le sue descrizioni, quasi una scenografia di una commedia all’italiana di stampo monicelliano, quando non si apparenta alle disarmonie inquietanti di Hieronymus Bosch.
Nei suoi scritti egli dà sfoggio di un uso sapiente degli strumenti retorici finalizzati a dar voce ad uno sdegno in cui l’icasticità della scrittura riproduce la forza emotiva che anima i contenuti. Quelli dell’ironia: tropoi, metalessi, domande retoriche, antifrasi e quelli dell’invettiva: anafore, iperboli, amplificazioni e accumulazioni caotiche, enumerazioni e climax in progressione semantica. E nella reiterazione non esiste quasi mai ripetizione pedissequa, fra un testo e il successivo: Cederna aggiunge sempre qualcosa, approfondisce un’analisi, incrementa i dati documentali, colora di nuovi aspetti la descrizione di un evento, di una situazione, ne definisce più in profondità le conseguenze, ne amplia i paralleli e i confronti. E potremmo in fondo riconoscervi anche in questo caso, l’uso, per così dire espanso, della figura retorica della “commoratio”: l’indugio ripetitivo sulle idee comunicate finalizzato al loro arricchimento concettuale. Certo i concetti ritornano, e Cederna stesso ammetteva, con civetteria provocatoria: “Scrivo da sempre lo stesso identico articolo, finchè le cose non cambieranno continuerò imperterrito a scrivere le stesse cose”, ma il ricorrere dei concetti è una sorta di necessità reiterativa dovuta al loro carattere episodico, ma ancor di più all’intento pedagogico che lo anima.
Parafrasare Cederna è una sfida linguistica piuttosto frustante, perché si finisce piuttosto per ricopiarlo, arrendendosi all’evidenza che meglio di così quel fenomeno, evento, meccanismo, luogo non poteva essere descritto o definito. L’Italia è, di volta in volta, ‘paese a termine’, ‘espressione topografica delle manovre della speculazione e della rapina privata’, ‘crosta repellente di cemento e asfalto’. E la ‘città a macchia d’olio’ costituisce la prima definizione italiana di sprawl urbano. Gli sventramenti urbani sono come i clisteri per i medici di Molière, gli obelischi di via della Conciliazione come vecchi candelieri su un comò di campagna. L’assimilazione del Colosseo ad uno spartitraffico è di Cederna, in Mirabilia Urbis. I beni culturali sono vacche sacre: intangibili, ma indesiderati; crosta Adriatica è la riviera romagnola. Espressioni che abbiamo usato tutti, prima o poi, tanto efficaci e lapidarie da diventare insostituibili.
E così le sue unità di misura costruite per evidenziare l’enormità di eventi, progetti e situazioni e la gravità delle loro conseguenze: l’albergo Hilton come misura di ecomostri e lottizzazioni in genere: due sigarette la spesa annuale dello Stato per abitante destinata alle indagini geologiche; mezzo foglio di carta protocollo la dotazione di verde per ogni cittadino romano fra il ’45 e il ’60.
All’inizio degli anni sessanta Cederna diviene strenuo sostenitore del disegno di legge urbanistica Sullo (è il 1962) di cui sottolinea la novità e la capacità di riallineamento con le più progredite normative e prassi europee, riconoscendone anche il merito di aver inserito, per la prima volta, la tutela del paesaggio e dei centri storici all’interno della pianificazione urbanistica.
Nel frattempo continua a dedicare molta parte della sua attività giornalistica e non, a Roma, da lui amatissima, pur non essendone la città d’origine e pur così lontana dalla sua impostazione culturale ispirata ad un’etica severa, ma senza moralismi. E a Roma è dedicata la seconda raccolta: Mirabilia Urbis (è il 1965). In essa scopriamo fin da subito l’analista di spietata acribia di documenti ministeriali, il narratore satirico di interminabili sedute comunali capitoline e il ritrattista di feroce sarcasmo di personaggi politici o accademici: valga per tutti l’insuperabile descrizione del “sindaco nero” Cioccetti.
In Mirabilia Urbis è la cronaca sempre più dolente dello stravolgimento del piano urbanistico del 1957, ‘il piano degli urbanisti’, elaborato da tecnici competenti e che avrebbe potuto ridare una dignità di pianificazione ad una città preda della speculazione e dell’anarchia edilizia postbellica. Su quel fallimento si innesta la decomposizione urbanistica di Roma ed il definitivo assalto speculativo dei grandi costruttori oltre che l’ammasso delle periferie più tetre e degradate di Europa (le borgate di pasoliniana memoria).
La raffinata sovracopertina einaudiana anticipa il testo dei risvolti e nel volume la sequenza fotografica iniziale sintetizza visivamente, con tecnica panoramica precinematografica, l’assunto di fondo dell’insieme testuale: la degradazione della capitale in cui si è già realizzato, nel 1965, lo stravolgimento ironicamente preannunciato nel titolo. E Cederna denuncia anche il totale disinteresse dell’amministrazione nei confronti del problema del verde urbano, la svendita dei parchi delle ville patrizie, lo scempio della costruzione dell’Hilton. E continua la battaglia per l’ Appia.
Agli esempi romani sono infine dedicati i primi Mirabilia Urbis: sorta di vademecum turistici al contrario, di guide rosse dello sfacelo e del degrado che Cederna andrà compilando, nel tempo, col puntiglio del topografo (Appia Antica, Campi Flegrei, Palermo, la penisola sorrentina), segnalando abusi, incurie, rovine.
Con l’arrivo al Corriere, durante gli anni di Giulia Maria Crespi (dal 1967 al 1982), il suo raggio d’azione si allarga, anche perché nel frattempo è divenuto il vero e proprio collettore di denunce, segnalazioni, proposte che gli provengono da ogni parte d’Italia, il punto di riferimento di quella opinione pubblica ‘qualificata’ (adesso la chiameremmo ‘società civile’) che va cominciando a formarsi anche per merito della sua attività.
Palermo, Venezia, Firenze, Lucca, Selinunte, Bologna, la situazione dei parchi naturali, delle coste, dei musei. Vere e proprie pagine di storia urbanistica di esemplare documentazione sono gli articoli inchiesta su Napoli del 1973 (Napoli, città omicida).
La Distruzione della natura in Italia, raccolta a tematica più dichiaratamente ambientalista, è del 1975 (dieci anni prima della Galasso): Cederna, che ironizza sugli ecologisti e guarda con sospetto al termine ‘paesaggio’, vi antepone la sintesi ‘Lo sfacelo del Bel Paese’ in cui si scaglia contro il paese delle eterne emergenze, delle calamità che ‘naturali’ sono solo per ipocrita convenzione, che scopre l’urbanistica solo dopo il crollo di Agrigento e la geologia dopo l’alluvione di Firenze. In quelle pagine bacchetta anche i padri costituenti perché disinteressati, nella stesura dell’art. 11, al problema della conservazione della natura, nelle sue implicazioni urbanistiche e sociali; denuncia ancora “la privatizzazione sistematica del suolo nazionale in nome della rendita parassitaria e della rapina privata”, il rifiuto delle politiche di piano in ogni settore e la rincorsa, da parte di una classe di governo miope e ottusa, ad un profitto facile e immediato per lo più a vantaggio del privato. Quale rimedio vi contrappone – ancora e sempre – la pianificazione urbanistica come regola suprema di governo del territorio e la conservazione della natura come obiettivo primario di ogni società civile. Talune considerazioni paiono persino anticipare temi degli studiosi della postmodernità (Rifkin in particolare).
A seguire un’analisi senza sconti dei parchi nazionali dell’epoca e della loro gestione, la denuncia della cementificazione delle coste ridotte, per chilometri e chilometri, a informi “città lineari”, del dilagare insensato dei porti turistici e degli impianti di risalita e infine, un tema a lui caro, il verde urbano, ridotto nelle nostre ‘città omicide’ a percentuali da prefisso telefonico. Evidenzia, ancora una volta in anticipo su tutti, i danni della ‘valorizzazione (termine che non gli piace) turistica’ in Costa Smeralda, del turismo elitario e di rapina che non regala che briciole all’economia locale e si trasforma in una forma di colonizzazione (fra i tanti rimpianti che ci ha lasciato, vi sarebbe anche la descrizione cederniana della categoria antropologica dei Briatore).
E non manca l’attenzione alle implicazioni economiche: è più vantaggioso risanare, conservare che costruire ex-novo, è più economico prevenire, studiare, che fronteggiare i danni del dissesto idrogeologico. Il recupero dei centri storici creerà nuovi posti di lavoro in quantità maggiore e più qualificati rispetto alla nuova edilizia.
Intanto si schiera a sostegno delle iniziative bolognesi di Sarti e Cervellati per il recupero dell’edilizia abitativa in centro storico e nella battaglia - vittoriosa - contro la cementificazione della piana di Castello a Firenze. Sua l’idea, assieme a Paolo Ravenna, dell’addizione verde di Ferrara che porterà al restauro delle mura cittadine.
Accusatore implacabile del carattere retrogrado e passatista della nostra archeologia della prima metà del ‘900: un coacervo di eruditi incapaci di ergersi a difensori dell’antico contro la montante speculazione e assertori di una concezione retriva e nazionalista della romanità di impronta spesso scopertamente fascista. Per questo lui, archeologo, si scaglia, fin dai primi interventi, contro i retori della archeologia e dell’antichità (summa delle sue battaglie il volume monografico del 1979, Mussolini urbanista).
Al volgere del decennio partecipa all’elaborazione del progetto Fori che lo vedrà impegnato, quale protagonista, accanto ad Argan prima e a Petroselli poi e a un drappello di urbanisti e intellettuali, nel sostegno del più innovativo progetto urbanistico che Roma abbia conosciuto nell’ultimo secolo, connesso topograficamente e ideologicamente alla creazione del Parco dell’Appia Antica, battaglia che continua dopo il successo (temporaneo) del decreto Mancini di destinazione a parco di 2500 ettari di campagna dell’Appia (è il 1965). Nel progetto Fori, al contrario di altri intellettuali, Cederna vede l’archeologia - quella stratigrafica, ‘progressista’, che ereditando la lezione di Bianchi Bandinelli, prende piede in Italia a partire dai tardi anni sessanta e si raccoglie soprattutto attorno alla rivista I Dialoghi di Archeologia - come mezzo per perseguire una finalità urbanistica e come parte di un ragionamento sull’insieme dell’assetto urbano. Il progetto costituirà uno dei punti cardine della proposta di legge per Roma Capitale presentata da Cederna nel 1989 in veste di deputato della Sinistra indipendente: in esso ci si misurava non solo con una visione nuova di Roma, ma la forma urbis diviene l’immagine di una rinnovata ideologia del governo della città.
Più difficili gli anni di Repubblica (è il 1983), più complicati, frastagliati i rapporti. Come lo stesso Cederna rileva ormai nell’amarissima introduzione a Brandelli d’Italia, l’ultima raccolta (è il 1991), l’attenzione della stampa quotidiana è spasmodicamente tesa alla notizia intesa come evento, catastrofe, disastro. Al contrario Cederna disprezza il “culto maniacale della notizia”, il giornalismo per lui è sempre stato “battaglia costante, continua, tempestiva e preventiva”, non semplice registrazione e al più deplorazione di un tragico evento. La continuità della sua denuncia, lo slancio che vi immette avevano fatto dei suoi articoli delle vere e proprie campagne stampa. Negli anni del Corriere in specie, Cederna riesce ad imporre un livello di attenzione per questi problemi impensabile per la stampa odierna, non solo quella quotidiana (nel 1972, in 5 giorni 3 articoli sui centri storici e il caso bolognese ). Adesso, negli ultimi anni, lui, urbanista ad honorem, comincia a scontrarsi con il muro di opacità nei confronti dei problemi dell’urbanistica e si deve adeguare ad un sistema mediatico ormai incapace di proporre visioni e analisi complessive e dove è finito il giornalismo d’inchiesta, ma ci si limita a richiamare solo gli eventi spettacolari e mediaticamente spendibili, relegando per lo più i temi urbanistici alle cronache locali.
Persino il linguaggio muta, l’ironia sarcastica e che si esaltava nell’aggettivazione a volte feroce e nell’accumulo definitorio in crescendo, lascia il posto ad una amarezza dolente e senza sorriso, come si avverte nei commenti di Brandelli d’Italia.
“Conosciamo i giornalisti, si stancano presto”: così la previsione di un funzionario della P.I., riportata da Cederna stesso, sulle polemiche da lui innescate a proposito del degrado della regina viarum sul Mondo (è il 1953). Oltre 140 gli articoli che scriverà sull’Appia in quarant’anni di infinita battaglia. Censita in ogni metro, ogni centimetro, come quando (L’Appia in polvere) Cederna compila da perfetto archeologo il puntiglioso catalogo dei frammenti archeologici abusivamente impiegati a decorazione del muro di cinta della villa di una nota attrice, al civico 223. Sull’Appia seppe mantenere alta l’attenzione fin dai primi anni ’50, quando più arrembante era l’assalto della speculazione, fino alle prime, contrastate vittorie e all’istituzione del Parco Regionale (è il 1988). Ancora oggi si succedono sull’Appia gli episodi di degrado, mentre ancora intatte - anche in presenza di ordini di demolizione - permangono alcune delle costruzioni abusive contro cui egli si battè. Solo il 5% del Parco dell’Appia è di proprietà pubblica e continua lo stillicidio delle costruzioni abusive che ha tratto nuova lena dal condono del 2003. A questo le risibili risorse della soprintendenza poco possono opporre. Però quando Cederna cominciò la sua battaglia l’Appia era sentita come terreno privilegiato per l’urbanizzazione di alto livello, mentre ora, nella coscienza dei romani, è ormai vissuta come il Parco dell’Appia: patrimonio della città e dei suoi cittadini.
‘Cederna non ha vinto. Non poteva vincere’. Così scrisse nel suo necrologio Nello Ajello (è il 1996). Certo nello scorrere di una contabilità spicciola tante sono state le sconfitte e, per propria natura, più rumorose delle vittorie e se la sensibilità della cultura nei confronti delle distruzioni dei singoli monumenti e dei beni culturali nel loro complesso è sicuramente aumentata, in altri campi le sue battaglie sono ancora apertissime.
Il prevalere della rendita fondiaria è ancora un tarlo che mina nel profondo non solo la nostra economia, condannandola in un limbo di arretratezza, ma anche una più sana dinamica sociale e financo democratica. E molto Cederna si preoccuperebbe di questa liaison dangereuse che oggi collega i nostri beni culturali al turismo in un abbraccio soffocante e in cui riaffiora, al di sotto della nuova patina garantista, la nefasta equazione beni culturali come petrolio di una indimenticata, ma non indimenticabile stagione politica e culturale che egli combattè aspramente.
Però la diffusione di una più matura consapevolezza culturale della fragilità del nostro patrimonio e del nostro territorio è da annoverare come uno dei risultati più importanti e duraturi della sua attività. Cederna in fondo rappresenta, ante litteram, uno dei migliori esponenti di quella società civile che egli stesso contribuisce a creare e che pur faticosamente si affaccia sulla scena politica e culturale italiana, società civile intesa come insieme di cittadini che credono che perché l’Italia possa divenire un paese moderno e progredito occorre che ciascuno dia il proprio contributo.
Anche grazie a lui, certi scempi non sono più possibili e molto Cederna si sarebbe rallegrato dell’abbattimento del Fuenti (tre asterischi nella sua guida rossa al contrario).
E infine ci piace pensare che avrebbe apprezzato la legge di eddyburg che ribadisce principi da lui tanto difesi e che egli elenca, nell’introduzione di Brandelli d’Italia: “mettere fine all’espansione, alla crescita indiscriminata delle città, e puntare ogni risorsa sulla loro riqualificazione- trasformazione qualitativa: quindi risanamento conservativo dei centri storici […] e ristrutturazione delle periferie costruite nell’ultimo mezzo secolo […].Tutela rigorosa delle aree “irrinunciabili” agricole e verdi, per creare sistemi e cinture verdi. Conservazione delle aree ancora libere nei centri e nelle periferie e destinazione a fini pubblici degli immobili che vengono dimessi, a cominciare da quelli militari”.
Ed eddyburg, in fondo, se avrà il coraggio di evolvere è lo strumento e insieme la comunità che, per consonanza ideologica e continuità d’intervento, si presta più compiutamente a raccogliere il testimone e ad essere l’erede di tante sue battaglie, alcune delle quali già hanno trovato ospitalità proprio sulle pagine virtuali del sito.
Un altro antitaliano, Giorgio Bocca, ha scritto qualche giorno fa: “l’educazione generale della specie è una leggerissima patina sopra una ribollente millenaria bestialità”. Credo che Cederna, in questa sua lunga inesausta battaglia contro la barbarie, nella quale ogni conquista è faticosissima e immediatamente reversibile e ogni sconfitta rimarginabile solo a carissimo prezzo, coltivasse in sottofondo proprio questa consapevolezza. Causa prima di quella malinconia di fondo che traspare in filigrana in tutti i suoi scritti, ma mai pretesto per desistere, perchè lui, come noi, sapeva anche che non c’è alternativa e, come l’amatissimo Shakespeare, che “come arrivano lontano i raggi di una piccola candela, così splende una nobile azione in un mondo malvagio”.
Bologna, 27 agosto 2006