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Furio Colombo
Un giorno con Berlusconi
17 Agosto 2005
Articoli del 2004
Perchè bisogna dire che l'Italia non è più una democrazia. Una lucida analisi del direttore de l'Unità del 31 dicembre 2004, per tirare le somme di una brutta annata e imparare qualcosa. In appendice gli eventi del 2004, nella sintesi di Silvia Bendetti

Senza carri armati, anzi circondato da uno stuolo di giornalisti benevoli e molto pazienti, ieri Silvio Berlusconi ha occupato la prima rete e il primo telegiornale della Rai per tutto il tempo che ha voluto, facendo saltare programmi e Tg, fedele solo a se stesso, alla sua immagine, al suo interesse, alla sua voce, al suo essere dove sta, in posizione arbitraria e incontrastata di potere. Lo vedete guardarsi intorno, mentre il nastro di parole scorre nel vuoto in automatico, e sembra colto da un secondo pensiero: possibile che sia così bravo da sottomettere tutto un Paese, i suoi intellettuali, i suoi commentatori, i suoi critici naturali, i giornalisti, senza poter esibire alcun merito, senza poter vantare alcun risultato, senza avere portato al Paese - o almeno a un’area o un ceto del Paese - qualche sia pur limitato miglioramento e di vantaggio?

O forse lo stimola un’altra domanda meno vanagloriosa e più umana: possibile che sia così facile? Gli sarà venuto in mente nel momento in cui uno dei partecipanti ha posto senza imbarazzo questa domanda che dovrebbe essere studiata - d’ora in poi - nelle scuole di giornalismo: «Presidente ci dica qual è la notizia del nuovo anno». È una domanda esemplare perché completa la delega dei poteri in questa Repubblica che Luciano Violante, nella sua dichiarazione alla Camera, ha chiamato la “Repubblica maggioritaria”. Ovvero tutto il potere alla maggioranza che - attraverso il meccanismo del voto di fiducia che vieta ogni discussione - delega tutto il potere al governo. E il governo - si è già visto e si vede in ogni Consiglio dei ministri - ha già delegato tutto il potere al capo.

Adesso un giornalista con posizione televisiva autorevole gli offre anche l’ultimo privilegio: definire che cosa è una notizia. Non più. Adesso è stato chiesto al capo di scegliere. È a questo punto che Berlusconi, nonostante l’immensa stima che ha per se stesso, deve essersi chiesto: possibile che sia così facile?

È inevitabile pensare a un libro di recente pubblicazione “La notte della democrazia italiana. Dal regime fascista al governo Berlusconi” a cura di Giampasquale Santomassimo. È la raccolta di una serie di interventi di una giornata di studio all’Università di Firenze cui hanno partecipato, fra altri, con Enzo Collotti, Giovanni De Luna, Giovanni Gozzini, Paul Ginsborg, Percy Allum, Stuart Woolf, Michele Battini, Gabriele Turi.

Scrive di quell’evento Simonetta Fiori (la Repubblica, 26 novembre): «Tutti trovano lecito chiedersi se in Italia non stia nascendo un regime di natura politico-mediatico-videocratico. Gli studiosi dell’Italia tendono a convergere su una risposta affermativa. Dicono: “Sì, oggi in Italia vige una democrazia atipica, guardata con allarme dall’opinione pubblica europea e con sostanziale indifferenza da quella italiana perché col tempo (come scrive il curatore del libro) ci si abitua a tutto, anche a considerare normale ciò che non è e non può esserlo”».

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Non è normale, infatti, che nel corso del lungo monologo detto “conferenza stampa” soltanto cinque giornalisti osino porre domande sul costo della vita, sul finto taglio delle tasse, sulla evidente necessità di una ulteriore manovra correttiva, sulla “par condicio” che sarà abolita col voto di fiducia. E che la inviata de l’Unità, per aver osato riferirsi alla misteriosa scomparsa del premier per 32 giorni, dopo il Natale del 2003 (una scomparsa senza spiegazioni che nessun capo di governo democratico potrebbe permettersi in Paesi normali) si è sentita rispondere che sarà lieto di fornirle l’indirizzo di un buon chirurgo plastico. E ha precisato, per l’Italia e per il mondo, con una di quelle frasi con cui certi anziani imbarazzano tutti in famiglia: «Io mi sento 40 anni, corro, faccio i cento metri con ottimo tempo. Dunque devo rappresentare fisicamente me stesso meglio degli altri perché posso permettermelo. È una forma di rispetto verso chi si aspetta da te una certa rappresentazione sul piano nazionale e internazionale. E credo che il mio comportamento (rivolgersi al chirurgo plastico, ndr) debba essere portato ad esempio».

La parola chiave è “rappresentazione”. Con essa il presidente del Consiglio, trascinato dal suo “One man show” (lo spettacolo di un attore che tiene la scena da solo) svela un suo pensiero ossessivo, la chiave del suo comportamento che ha tre punti d’appoggio: giovare a se stesso, vantare il bene fatto agli altri (tutto è merito suo, anche gli aiuti dopo l’immane tragedia asiatica) ed essere ammirato per come appare. Con la profonda persuasione di fare accadere - o di aver già fatto accadere - ciò che racconta e di cui si vanta da solo, sospeso nella aura magica che si è costruita sulla certezza dell’unico successo che gli importa e che conta: il successo mediatico. Dice a se stesso e a noi che ciò che dice è accaduto perché lui non può fallire.

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Un filo di patologia lega queste immagini di se stesso che entrano in televisione, la occupano, scacciano tutte le altre immagini con la persuasione che lui governa lì, in quel momento, con quello che dice e quello che si vede. Ma perché l’ossessione che Berlusconi ha di se stesso possa continuare intatta e anzi rafforzata occorre una situazione di culto. La storia conosce bene situazioni come questa. Sentite Angelo Panebianco sul Corriere della Sera del 28 dicembre, in un editoriale ingannevolmente intitolato “La vera forza di Romano Prodi”. «Già molto tempo prima che Berlusconi pubblicizzasse il suo famoso contratto con gli italiani, il centrodestra aveva, presso l’elettorato, una immagine netta e riconoscibile. Le sue idee forti erano conosciute ed erano quelle del capo. Erano le idee di Berlusconi (...) il centrodestra si propone (dalla devoluzione al fisco, dalla Giustizia al Welfare alla Costituzione) come forza di cambiamento e di rottura con il passato».

Berlusconi - occorre dirlo - trae dal cerchio di adulazione che si è prontamente creato intorno a lui e dal cerchio di intimidazione che ha saputo creare, regalando orologi e rovinando carriere, tutto il frutto possibile. Per aumentare l’adulazione si elogia da solo, si compiace da solo, si esibisce fino a quando - come i colleghi compiacenti o pazienti o ansiosi di Palazzo Madama durante l’occupazione di due ore televisive il 30 dicembre - la sua folla ride. Ride, come i bambini a scuola, una risata umiliante e liberatoria. Tutti sanno che con lui non si ride sempre. Fin dal principio ha messo in chiaro un concetto mussoliniano: «Questa è una opposizione fatta di anti italiani che tramano per impedirmi di ottenere la revisione del patto di stabilità». Ci dice l’agenzia Ansa che il premier assicura: «Porterò le prove». Non le porterà, non le ha mai portate. Ricordate le accuse spaventose della Commissione-killer detta Telekom Serbia che aveva per scopo di incriminare Prodi e Fassino? Ricordate le sanguigne minacce della Commissione Mithrokin? Tutto svuotato dalla magistratura, non da chi, in Parlamento, si è prestato al servizio-calunnia. Ma non importa. Fra coloro che ricevono dal premier orologi e orecchini e coloro che traggono insegnamento dai licenziamenti di colleghi illustri, nessuno ha voglia di verificare, di denunciare l’omissione, la bugia, il puro spettacolo a vuoto, l’inganno.

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Una volta zittiti i critici, una volta stabilito, nelle sue file e nelle file degli altri, che non è accettabile parlare male di lui, Berlusconi non ha esitazioni ad affermare: «Come Bush si batte contro il terrorismo, anch’io continuerò a battermi contro il male di questa sinistra. Ma Bush non ha un problema interno, perché le radici liberali dei democratici e dei repubblicani sono le stesse. Invece noi abbiamo una preoccupazione maggiore. C’è una base religiosa, nel nostro partito, per evitare che prevalga il male, cioè una ideologia che dovunque è stata dannosa per i cittadini». Una dichiarazione arretrata di molti decenni nella storia, che si situa tra Francisco Franco e Pinochet. Possiamo dire che Berlusconi è un Francisco Franco buono perché non usa la garrota? O che è un Pinochet virtuale perché, poi, alle parole - che chiunque in Europa considererebbe gravissime - non segue il sangue?

Proviamo a riassumere i tratti fondamentali di un giorno con Berlusconi, il 30 dicembre, il monologo televisivo senza fine detto benevolmente “conferenza stampa”.

1 - Berlusconi occupa la Tv quando vuole, parla per il tempo che vuole, improvvisa quello che vuole sapendo che nessuno intercetterà cifre finte o affermazioni irreali.

2 - Berlusconi occupa la Tv all’ora del telegiornale mentre centinaia di famiglie italiane attendono con angoscia di sentire un nome, un luogo, una rassicurazione sui figli e genitori dispersi. A lui non importa. Interrompe il servizio pubblico perché deve parlare di se stesso.

3 - Berlusconi accusa come vuole, sicuro del suo controllo sui media. Ogni risposta, se ferma e adeguata, sarà definita “odio”. Il riferimento all’opposizione come antitaliana e come simile ai nemici di Bush (dunque il terrorismo) viene accettata e diffusa perché, nella grande stampa indipendente e nei talk show televisivi, nessun commentatore vorrà raccogliere la questione. I più miti fingeranno di non averla sentita, i più militanti la rilanceranno come se si trattasse di cose vere, fondate, provate.

4 - Governare è difficile e rischioso. Perché Berlusconi dovrebbe farlo quando può comprare ciò che gli serve, contentare i suoi con le nomine, liquidare o promuovere giudici in posizioni cruciali come vuole lui, a dispetto del Csm (lo ha appena fatto nel caso della Procura antimafia), mandare i suoi amici negli organi di controllo (lo ha appena fatto con Guazzaloca nominato all’Antitrust), nominando sottosegretario chiunque, purché fedele o zitto?

Berlusconi, con il suo controllo totale dei media, è libero di recitare per gli italiani la parte del Mandrake della politica nazionale e mondiale (mentre nel mondo perdiamo vertiginosamente immagine e reputazione), conta sul silenzio o su domande benevole e storie che non saranno mai scritte. Ci fa sapere che senza libertà di comunicazione e di informazione si vive benissimo perché a comunicare ci pensa lui. Ci propone - lui e tanti altri - di smetterla e di stare al gioco. Tanti ci stanno e si trovano bene, in ottimi studi tv con ruoli di spalla. Insistono (non sempre con le buone): «Non siamo fanatici»

Eppure noi ci sentiamo moderati. Con quel che succede, diciamo appena il minimo.

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