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Rossana Rossanda
Un esame di noi stessi
18 Febbraio 2012
Sinistra
Una riflessione amara, utile per quanti ritengano che si debba ancora guardare (oggi più che mai) oltre il sistema capitalistico, per quanto sia lungo e incerto il cammino da percorrere. Il manifesto, 18 febbraio 2012

Della libertà di stampa al governo Monti non potrebbe importar di meno. Da buon liberista è convinto che un giornale è una merce come un'altra; se vende abbastanza ai lettori e agli inserzionisti di pubblicità, viva, se no muoia.
Lo strangolamento è stato bene illustrato l'altro ieri da Valentino Parlato. Ed era visibile dai nostri bilanci. La nostra asfissia è della stessa natura di quella che si tenta di applicare ai beni comuni non meno urgenti. A noi sembra importante anche la presenza di una voce fuori dal coro come la nostra, perché in un paese che ha mandato tre volte Silvio Berlusconi al governo, qualcosa non funziona. Né funziona che tanti amici si rallegrino che al posto d’un faccendiere impresentabile sia venuto un onesto e distinto liberista. Onesto personalmente, s’intende. L'onestà sociale non si sa più bene che cosa sia, e non importa più alla stampa salvo che a noi. Che siamo non solo un pezzo della sinistra, ma addirittura comunisti. Anzi, più che comunisti, nel senso che il comunismo dei “socialismi reali” non ci andava né su né giù. Per questo fummo esclusi dal Pci, ma per non essersi posti le nostre domande sui socialismi reali i partiti comunisti non esistono praticamente più.

Che al governo una voce come la nostra non interessi è comprensibile: del manifesto è rimasta l’immagine di un quotidiano di sinistra, anzi di estrema sinistra. Ora è facile giurare sulla libertà di stampa finché questa non è dalla parte di chi ti attacca. E in Italia chi attacca il governo? E noi dove siamo? Come Parlato ricorda, il manifesto vende sempre meno da otto anni a questa parte. Il calo si è accelerato negli ultimi due. La media in cui ci eravamo tenuti nei nostri primi trenta anni è stata, poco più su poco più giù, di trentamila copie, non molto alta, eravamo un giornale di nicchia. Ma solida e rispettata nicchia. Ora si è circa la metà.

Dovremmo chiederci perché. Era nostra abitudine fare un punto almeno un paio di volte all’anno. Ma negli ultimi tempi la direzione non ha più convocato un'assemblea che faccia il punto sullo stato del mondo e dell'Italia e sul nostro orientamento in esso. Né la redazione, che può esigerlo, sembra averne sentito il bisogno. Neanche un attimo prima di arrivare a quella forma di liquidazione, non proprio un fallimento ma quasi, cui siamo costretti.

Non è stata una buona scelta. Non è infatti per nulla ovvio che cosa sia oggi un giornale

di sinistra, tanto meno uno che, sempre secondo Parlato, dovrebbe ancora definirsi comunista. Nel senso che dicevamo sopra, un comunismo che poco ha a che vedere con i “socialismi reali”, ma che realizzi un cambiamento del vivere e del produrre e che facendolo realizzi un più di libertà politica. Lo abbiamo detto in questi anni ancora? Si poteva dirlo? Si poteva crederlo? Questa è la domanda cui abbiamo smesso di rispondere cessando fra noi persino di farcela. Io tendo a credere che da questa reticenza venga il dimezzamento dei nostri lettori. Ma è una domanda cui non è semplice rispondere. Non è facile essere comunisti oggi, a più di trenta anni dal 1989. E appunto sarebbe nostro compito chiarire che cosa intenderemmo nel dirci comunisti ancora, o perché non si possa dirlo più.

Io credo che, almeno nei tempi brevi, non si possa dirlo più. E non perché il sistema mondializzato sia diventato più umano, condiviso e condivisibile, meno feroce, più pacifico perché libero e un po' meno inegualitario, cosa che non vuol dire conformizzato. Non abbiamo mancato di scrivere che dal 1971 non sono soltanto passati molti anni, ma sono cambiate molte cose. Quasi tutte. Ma non ne abbiamo tratto ed esplicitato le conseguenze. In questo la crisi della sinistra non è diversa dalla nostra, almeno – sinistra essendo ormai parola assai vaga di quella parte della sinistra che si proponeva un cambiamento del modo di produzione. Si può essere anticapitalisti oggi?

Il manifesto è nato quando una parte del mondo, sotto l’egemonia degli Stati Uniti, era capitalista e imperialista, e una parte che aveva già abolito la proprietà privata del capitale si diceva socialista ed era sotto l'egemonia dell’Urss. Il mondo si ridefiniva fra due campi e mezzo: perché restava una parte sospesa in un “postcolonialismo”, vago come tutti i post, che chiamavamo paesi terzi. Oggi non è più così; gli Stati Uniti non sono più la indiscussa prima potenza capitalista, e non è sicuro che il loro fine si possa definire, come prima, imperialista. L’Unione Sovietica non esiste più. La Cina ha un governo che si dice comunista ma un sistema produttivo capitalista spinto. Cuba non sembra più affatto socialista. Il terzo mondo ha percorso, tra stati e sotto l'influenza di potenze diverse, un itinerario mai visto prima. Allo stesso tempo l’Europa ha formato una grande area a moneta unica e a direzione liberista che da anni è traversata da una crisi, economica e politica, più acerba di quella degli Stati Uniti da cui aveva preso radice. Insomma, è cambiato tutto. È cambiato il capitalismo? Possiamo dire di sì, nel senso che ha articolato le sue forme e non ha più uno stato che ne sia indiscutibilmente la leadership. Dobbiamo dire di no, nel senso che ha mondializzato, appunto articolandolo, il suo modo di produzione. Possiamo, davanti a questo mutamento di scena, conservare gli strumenti di analisi e di proposta che avevamo nel 1971? Non credo. Andrebbero almeno verificati.

Anche l’Italia è cambiata. Nel senso che forse nel paese dove il movimento del '68 è stato più lungo e più esteso a vari strati sociali, non solo operai e studenti, ha anche – ha ragione Mario Tronti – più destrutturato le forme

classiche del socialismo e della democrazia di quante forme nuove abbia prodotto. Ha investito nuove figure sociali e anche qualcosa di assai più che una forma sociale, le donne e i femminismi. Questa molteplicità di oggetti ha avuto in comune il rigetto delle forme di potere cui era, visibilmente o invisibilmente, sottomessa, nello stesso tempo dividendosi acerbamente. Risultato, all’ampiezza del rigetto ha risposto una reazione opposta, un individualismo piatto, un rifiuto di ogni cambiamento di società, di ogni collettività che non sia locale o comunitaria. La incomunicabilità delle differenze ha prodotto una crisi della politica, il cui esito è stato il berlusconismo e il crescere del populismo.

Ma di questo neanche noi abbiamo dato una mappa e una topografia approfondita e comune. Abbiamo denunciato i limiti del keynesismo post-

bellico con l'intento di andare oltre, ma di fatto abbiamo lasciato spazio a spinte liberiste. Meno stato più mercato, è uno slogan che piaceva anche a sinistra. Per un paio di decenni abbiamo messo da parte il rapporto di lavoro, analizzando le nuove soggettività e le molte contraddizioni che ne erano fuori, finendo col dichiarare lo sbiadimento se non addirittura l’irrilevanza della contraddizione fra lavoro e capitale. Fino allo scoppio della crisi e dell'offensiva padronale alla Fiat abbiamo dato poca attenzione alla struttura sociale, come se fosse un problema puramente sindacale. Non siamo stati convinti, e quindi non siamo stati capaci di convincere, che come ci ricorda il segretario della Fiom il modo di produzione non investe soltanto la fabbrica ma tutta la società. Il lavoro? Roba del secolo scorso. L’operaio? Non c’è più. Il sindacato? Vecchiume. Del resto non gorgheggiavano ogni giorno i padroni che il lavoro costituiva orami una parte minima del processo di produzione?

Oggi i padroni dicono tutto il contrario, strillano che per essere competitivi nella mondializzazione bisogna ridurre i salari italiani a quelli dell’Indonesia o della Cina, un terzo, un quarto del livello che i lavoratori erano riusciti a spuntare da noi. Così siamo arrivati, come il resto del mondo occidentale, a una stretta in cui i redditi si sono divaricati al massimo, il dieci per cento della popolazione guadagna quanto il novanta per cento, e di questo dieci, l’un per centro guadagna più di tutti gli altri. Nella stretta si dibattono anche le nuove soggettività.

In questo ribollire di bisogni e nella loro incapacità di trovare un dialogo, il manifesto non è riuscito a suscitare più interesse ma meno. Eppure non c’è giorno che esso non proponga un pezzo interessante e che sarebbe impossibile trovare altrove, un'interpretazione di una notizia che l’altra stampa offusca. Forse che quel che scriviamo non si capisce, non è detto bene? Non è chiaro? Non è rapido e divertente? Qualcosa non ha funzionato neanche da noi. Siamo stanchi, perché – per favore non lo si dimentichi – coloro che ogni giorno hanno confezionato questo foglio e lo hanno spedito in giro non ne possono più di un successo che lentamente viene meno e perdipiù di essere pagati meno che in qualsiasi altro giornale, e a singhiozzo, a volte aspettando il salario per mesi. Affidarsi per anni agli introiti del marito, della moglie, dei genitori, a un altro lavoretto è facile da dire, non facile da vivere.

Io insisto perché nel chiedere solidarietà facciamo anche un esame di noi stessi. O pensiamo che la storia sia finita e che “io speriamo che me la cavo” sia diventato il solo slogan veramente popolare?

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