Il decreto legge sulla finanziaria (n° 112 del 25 giu. 2008, “Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”), quello approvato in nove minuti e mezzo dal Consiglio dei ministri, ha suscitato molte critiche, specialmente a ragione dei pesanti tagli alla spesa. Con riguardo al settore dei beni culturali Salvatore Settis ha argomentato, in un intervento che ha avuto larga eco, che tali decurtazioni pregiudicherebbero lo stesso regolare funzionamento del Ministero e delle soprintendenze, sì da prefigurare, di fatto, una loro estinzione.
La gravità di queste previsioni ha però messo in secondo piano altre misure contenute nel decreto, forse meno appariscenti ma altrettanto dannose, e che interessano l’insieme del’organizzazione del territorio e del suo governo. Ne segnalo rapidamente alcune.
“Impresa in un giorno”
Così s’intitola l’art. 38 del decreto, il quale con un solenne richiamo al “diritto di iniziativa economica privata di cui all’articolo 41 della Costituzione” si propone di tutelare l’attività imprenditoriale a partire dalla presentazione della dichiarazione d’inizio attività o dalla richiesta del titolo autorizzatorio (comma 1). Si tratta in sostanza di una rielaborazione della normativa sullo sportello unico, dove fra le novità di rilievo va segnalata (comma 3, lettera c) la possibilità di affidare a soggetti privati (“agenzie per le imprese”) l’attività istruttoria sulla sussistenza dei requisiti per l’esercizio dell’attività, per cui la loro semplice dichiarazione di conformità verrebbe a costituire titolo autorizzatorio.
Ma interessano di più le disposizioni di cui alle lettere f, g ed h dello stesso comma 3:
“f) lo sportello unico, al momento della presentazione della dichiarazione attestante la sussistenza dei requisiti previsti per la realizzazione dell’intervento, rilascia una ricevuta che, in caso di d.i.a., costituisce titolo autorizzatorio. In caso di diniego, il privato può richiedere il ricorso alla conferenza di servizi di cui agli articoli da 14 a 14-quinquies della legge 7 agosto 1990, n° 241;
“g) per i progetti di impianto produttivo eventualmente contrastanti con le previsioni degli strumenti urbanistici, è previsto un termine di trenta giorni per il rigetto o la formulazione di osservazioni ostative, ovvero per l’attivazione della conferenza di servizi per la conclusione certa del procedimento;
“h) in caso di mancato ricorso alla conferenza di servizi, scaduto il termine previsto per le altre amministrazioni per pronunciarsi sulle questioni di loro competenza, l’amministrazione procedente conclude in ogni caso il procedimento prescindendo dal loro avviso; in tal caso, salvo il caso di omessa richiesta dell’avviso, il responsabile del procedimento non può essere chiamato a rispondere degli eventuali danni derivanti dalla mancata emissione degli avvisi medesimi”.
Non si tratta d’altro, come i lettori di eddyburg avranno compreso, che di una riproposizione, peggiorata come vedremo, del cosiddetto ddl Capezzone, presentato nella scorsa legislatura e soprannominato a sua volta – un po’ meno ambiziosamente di questo – “un’impresa in sette giorni”. Allora se ne denunciò da più parti la pericolosità (raccogliendo l’appello di eddyburg) e si riuscì ad impedirne l’approvazione. Nel segno della continuità bipartisan (Capezzone è passato dal centro-sinistra alla destra), eccolo rispuntare adesso in un articolo del DL 112/2008.
Abbiamo quindi il silenzio-assenso, con termini estramemente brevi e per interventi suscettibili di sconvolgere l’assetto del territorio e dell’ambiente. Non solo, ma abbiamo un silenzio-assenso, per così dire, blindato e allargato. Se infatti, a parte quella procedente, anche le “altre amministrazioni” (ad esempio quella dei Beni culturali) saranno silenti, il provvedimento andrà avanti ugualmente e il funzionario comunale responsabile del procedimento non ne risponderà. Detto altrimenti, l’atto autorizzativo, benché privo dei pareri previsti per legge, sarà comunque efficace. Pensiamo, per riferirci a casi concreti, a richieste di costruire una fabbrica o un grande albergo in zona vincolata. Se poi teniamo a mente il “combinato disposto” di tale micidiale norma con gli annunciati tagli ai fondi ed al personale delle amministrazioni pubbliche (dai comuni alle soprintendenze), lo scenario che ci si apre davanti è a dir poco terrificante.
Il criticatissimo ddl Capezzone, almeno sotto questo profilo, si sforzava di porre qualche modesto argine: per esempio si indicava come prerequisito per il rilascio delle autorizzazioni la conformità “alla vigente disciplina ambientale, sanitaria, di tutela dei beni culturali e paesaggistici, di sicurezza sul lavoro e di tutela della pubblica incolumità” e si escludeva la possibilità di avviare immediatamente gli interventi quando la verifica di conformità comportasse valutazioni discrezionali da parte della pubblica amministrazione per i profili sopra ricordati (fra cui quelli attinenti alla tutela dell’ambiente e del “patrimonio archeologico, storico, artistico, culturale e paesaggistico”).
Siamo ormai abituati al peggio, ma si resta ugualmente senza parole e la speranza, a fronte di uno stravolgimento così brutale dei cardini stessi della corretta utilizzazione del territorio e della tutela, è che la palese incostituzionalità di queste disposizioni porti ad un loro rapido affossamento. Con buona pace dei teorici del “diritto di iniziativa privata” senza limiti, l’art. 41 della Costituzione, da costoro goffamente richiamato, ha anche un secondo comma, importante quanto il primo, ed è pacifica, finché almeno la nostra carta dei diritti non sarà modificata, la prevalenza su tutti gli altri dei valori costituzionali primari, a partire da quelli garantiti dall’art. 9.
L’altra speranza è che i comuni, cui in definitiva è affidata l’attuazione della legge, sappiano difendere il loro territorio sulla base di piani urbanistici correttamente formati.
La privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico
L’obiettivo è “valorizzare” il patrimonio immobiliare pubblico: dove “valorizzare” significa mettere sul mercato, in definitiva privatizzare: trasferire dal pubblico al privato un altro pezzo del patrimonio comune, fra quelli socialmente più rilevanti. Questo obiettivo è perseguito soprattutto in dua articoli: l’articolo 13 (“Misure per valorizzare il patrimonio residenziale pubblico”) e l’articolo 58 (“Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali”).
Il primo dei due articoli stabilisce che “al fine di valorizzare gli immobili residenziali costituenti il patrimonio degli Istituti autonomi per le case popolari, comunque denominati, e di favorire il soddisfacimento dei fabbisogni abitativi, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto il Ministro delle infrastrutture ed il Ministro per i rapporti con le regioni promuovono, in sede di Conferenza unificata, di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n° 281, la conclusione di accordi con regioni ed enti locali aventi ad oggetto la semplificazione delle procedure di alienazione degli immobili di proprietà dei predetti Istituti”. Il prezzo dovrà essere determinato non in relazione al valore di mercato, ma “in proporzione al canone di locazione”. Diritto di prelazione avrebbero gli attuali assegnatari.
Il “soddisfacimento dei fabbisogni abitativi”, che sembra costituire l’obiettivo della norma, sarebbe da conseguire fra l’altro, come specifica l’art. 11 (“Piano casa”) del d.l., proprio attraverso “le risorse derivanti dalla alienazione di alloggi di edilizia pubblica” (sul significato e sulle conseguenze del “piano casa” si veda l’articolo di Gianfranco Cerea e la postilla di eddyburg).
Veniamo all’altro articolo, il 58 (“Ricognizione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di regioni, comuni ed altri enti locali”):. Questo è già stato criticato da eddyburg (Continua il grande furto). Meritano particolare attenzione i commi 1 e 2 dell’art. 58:
“1. Per procedere al riordino, gestione e valorizzazione del patrimonio immobiliare di Regioni, Province, Comuni e altri Enti locali, ciascun ente con delibera dell'organo di Governo individua, sulla base e nei limiti della documentazione esistente presso i propri archivi e uffici, i singoli beni immobili ricadenti nel territorio di competenza, non strumentali all'esercizio delle proprie funzioni istituzionali, suscettibili di valorizzazione ovvero di dismissione. Viene così redatto il Piano delle Alienazioni immobiliari allegato al bilancio di previsione.
“2. L’inserimento degli immobili nel piano ne determina la conseguente classificazione come patrimonio disponibile e ne dispone espressamente la destinazione urbanistica; la deliberazione del consiglio comunale di approvazione del Piano delle Alienazioni costituisce variante allo strumento urbanistico generale. Tale variante, in quanto relativa a singoli immobili, non necessita di verifiche di conformità agli eventuali atti di pianificazione sovraordinata di competenza delle Province e delle Regioni”.
Detto altrimenti, il semplice inserimento negli elenchi, approvato in blocco con una semplice delibera di consiglio, andrà a costituire ex se variante al piano urbanistico comunale, senza godere di nessuna delle garanzie previste dalla legislazione urbanistica (pubblicazione, osservazioni, controdeduzioni, vaglio degli uffici regionali, conformità con i provvedimenti e i piani di tutela, ecc.). Per fare di nuovo un esempio concreto, i cambi di destinazione di immobili di proprietà dei comuni potranno provocare una fioritura di alberghi in zone anche delicate, senza che nessuno – stando al testo della legge – possa obiettare nulla.
E ancora una volta, per valutare appieno gli effetti esiziali di un simile provvedimento bisogna inquadrarlo in un contesto in cui i comuni, afflitti dalla crisi finanziaria che conosciamo a ragione non avranno altra scelta che vendere o svendere il loro patrimonio immobiliare, e tutti sappiamo bene a chi.
Per concludere
È difficilmente comprensibile il silenzio che circonda le operazioni che abbiamo rapidamente esaminato. Silenzio della stampa e delle emittenti radio-televisive, silenzio delle opposizioni in Parlamento, silenzio dei partiti politici. Il territorio e il bene pubblico che esso costituisce – nel suo insieme e nelle sue porzioni che appartenngono anche patrimonialmente alla collettività – possono essere svenduti al miglior offerente. Le regole che dovrebbero consentire la razionalità della sua utilizzazione sono calpestate senza neppure che chi governa (dalla maggioranza o dall’opposizione) se ne renda conto. Gli stessi “esperti”, nella loro maggioranza, sembrano ignorare ciò che sta accadendo. Gli spazi che si aprono alla speranza sembrano davvero pochi.