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Stefano Rodotà
Un clima pericoloso
3 Novembre 2007
Articoli del 2007
A proposito di sicurezza: “Facimmo ‘a faccia feroce è esattamente il contrario di quel che serve in situazioni come questa”. La Repubblica, 3 novembre 2007

l’aggressione di ieri sera contro un gruppo di romeni dimostra che è avvenuto qualcosa che i pessimisti sentivano nell’aria. Quando sono tanto forti le emozioni, e nessuno le raffredda e troppi le sfruttano, non soltanto diventa difficile trovare le risposte giuste, ma si esasperano i conflitti.

Da un caso gravissimo, l’uccisione di Giovanna Reggiani, si è passati con troppa rapidità all’indicazione di responsabilità collettive. L’assassinio è quasi finito in secondo piano, e l’attenzione è stata tutta rivolta a documentare una sorta di incompatibilità tra la nostra società e la presenza romena, insistendo sulla percentuale di reati commessi da persone provenienti da quel paese. In un clima sociale che si sta facendo sempre più violento, le premesse per l’apertura della caccia al romeno, purtroppo, ci sono tutte.

Così non basterà condannare l’accaduto. Le risposte istituzionali sono già venute, e sarebbe sbagliato chiederne ulteriori inasprimenti, che darebbero la sensazione che alla violenza si debba reagire solo con la violenza sì che, se lo Stato arriva tardi o in maniera ritenuta inadeguata, tutti sarebbero legittimati a farsi giustizia da sé. Alla politica si devono chiedere non deplorazioni, ma misura; non ricerca di consenso, ma di soluzioni ragionate.

Da anni, da troppi anni, siamo prigionieri di un uso congiunturale delle istituzioni, che porta a misure che rispondono ad emozioni o a interessi di breve periodo più che alla realtà dei problemi da affrontare. E’ un rischio che stiamo correndo anche in questi giorni, mentre avremmo bisogno di analisi non approssimative e testa fredda nell’indicare le via d’uscita. Di fronte alle tragedie nessuno dovrebbe fare calcoli meschini.

Il presidente della Repubblica ha sottolineato che le questioni dell’immigrazione esigono responsabilità comuni dell’Unione europea. Il presidente del Consiglio si è messo in contatto con il primo ministro romeno. Dalle parti più diverse si è sottolineata la necessità di un controllo del territorio e di una attenzione per le condizioni in cui vivono gli immigrati. E’ stata proprio una donna romena che ha consentito l’immediato arresto dell’assassino.

Perché allineo questi fatti? Perché, messi insieme, dimostrano la parzialità della tesi di chi pensa che sia sufficiente inasprire le pene, cancellare le garanzie, far di tutt’erbe un fascio, sparare nel mucchio. "Facimmo ‘a faccia feroce" è una vecchia tecnica di governo, ma è esattamente il contrario di quel che serve in situazioni come questa. E’ indispensabile, invece, una strategia integrata, fatta di cooperazione internazionale, di legalità a tutto campo, di efficienza degli apparati di sicurezza, di misure per l’integrazione, di politica delle città. Ed è indispensabile una politica volta a promuovere la fiducia degli immigrati: senza la collaborazione di quella donna, senza la rottura dello schema dell’omertà (purtroppo così forte anche nella nostra cultura), l’assassino non sarebbe stato individuato così rapidamente. In ogni società la fiducia è una risorsa essenziale. Da soli, i provvedimenti di ordine pubblico non ce la fanno, non ce l’hanno mai fatta.

Essere consapevoli di tutto questo non è cattiva sociologia, ma buona politica, anzi l’unica politica possibile. Proprio quanti si preoccupano dell’efficienza dovrebbero esigere che si facciano passi concreti in quelle direzioni. Proprio chi invoca la legalità deve sapere che questa non è divisibile, ed è stato giustamente notato che uno dei meriti del "pacchetto sicurezza" è nell’aver previsto anche una nuova disciplina del falso in bilancio. Proprio chi fa professione di garantismo deve mostrare coerenza, soprattutto nei momenti difficili: non si può essere garantisti a corrente alternata.

Non sto sostenendo che il problema è "ben altro". Cerco di dire che non ci si può mettere la coscienza in pace con un decreto e una raffica di espulsioni, dando così all’opinione pubblica la pericolosa illusione che il problema sia risolto. Qualche sera fa, intervenendo in una trasmissione televisiva, Pier Luigi Vigna, certo non imputabile di atteggiamenti compiacenti verso chi viola la legalità, ha riferito la risposta di un responsabile dell’ordine pubblico ad una sua domanda su dove fossero finiti i lavavetri scomparsi dalle vie di Firenze: «Stanno a rubare». E’ l’effetto ben noto a chi ha indagato sulla scomparsa o la diminuzione dei reati nelle aree videosorvegliate: semplicemente i comportamenti criminali si erano spostati nelle zone vicine. Ecco perché, se davvero si vuole uscire dalla violenza e vincere la paura, nuove norme contenute in un decreto possono essere un punto di partenza, vedremo fino a che punto accettabile.

Guardando solo agli inasprimenti della legislazione, anzi, si finisce col distogliere lo sguardo dalla realtà. Più di una inchiesta di questo giornale, ultima quella di Giuseppe D’Avanzo, ha documentato il degrado urbano, le terribili condizioni di vita degli immigrati. Si può davvero pensare che il problema si risolva con una politica delle ruspe e degli "allontanamenti"? Con una tolleranza zero che poi non riesce neppure ad essere tale se le forze di polizia non sono messe in grado di un controllo intelligente e mirato del territorio, se i nuovi poteri dei sindaci finiscono con l’indirizzare la loro attenzione verso una esasperazione del momento dell’ordine pubblico invece di mettere al centro gli interventi strutturali, complici le difficoltà economiche dei comuni? Si può certo contare sull’effetto dissuasivo di una massiccia ondata di espulsioni. Ma quanto potrà durare? E quali saranno gli effetti reali e i prezzi della nuova disciplina?

Il decreto riprende lo schema delle norme di attuazione della direttiva comunitaria del 2004 sul diritto di circolazione e di soggiorno dei cittadini comunitari (romeni compresi), in vigore dal marzo di quest’anno, con due significative integrazioni. La prima riguarda l’attribuzione del "potere di allontanamento" non più al solo ministro dell’Interno, ma pure al prefetto (una figura di cui si continua chiedere la scomparsa e che, invece, ottiene così una nuova e forte legittimazione). La seconda, ben più incisiva, consiste nell’ampliamento delle cause che permettono l’allontanamento del cittadino comunitario, riassunte nella formula dei "motivi imperativi di pubblica sicurezza" che derivano dall’aver "tenuto comportamenti che compromettono la tutela della dignità umana o dei diritti fondamentali della persona umana ovvero l’incolumità pubblica, rendendo la sua permanenza sul territorio nazionale incompatibile con l’ordinaria convivenza". Malgrado riferimenti altisonanti come dignità o diritti fondamentali, siamo di fronte ad una formula larghissima, nella quale possono rientrare le situazioni e i comportamenti più diversi. Come sarà interpretata?

Qui gioca il clima in cui il decreto è stato approvato. Non "necessario e urgente" fino alla sera prima (sono questi i requisiti di un decreto), il provvedimento lo diventa dopo il brutale assassinio di Roma. Poiché si deve supporre che il governo conoscesse già i dati riguardanti i reati commessi dai romeni, sui quali si è tanto insistito in questi giorni, la conclusione obbligata è che si è utilizzato lo strumento del decreto unicamente per rispondere all’emozione dell’opinione pubblica. E la sua applicazione rischia di essere guidata dalla stessa ispirazione, rendendo inoperanti le garanzie necessarie per evitare che venga travolta una libertà essenziale del cittadino europeo.

La pressione dell’opinione pubblica non è stata alleggerita dal decreto. Al contrario, è stata ulteriormente legittimata, sì che bisogna attendersi che continuerà nei confronti dei prefetti. Già si annunciano liste di migliaia di persone da allontanare: questo renderà difficilissimo motivare in modo adeguato ciascun singolo provvedimento. E i debolissimi giudici di pace, che dovrebbero controllare questi provvedimenti, non hanno i mezzi per farlo in modo adeguato, sì che non se la sentiranno di pronunciare un no. Per non parlare di un successivo ricorso al tribunale amministrativo contro l’allontanamento, che quasi nessuno potrà concretamente proporre. La garanzia giurisdizionale, essenziale in uno Stato di diritto, rischia così d’essere concretamente cancellata.

Alle norme del decreto bisogna guardare con distacco e preoccupazione. Con distacco, perché non verrà solo da esse la soluzione di problemi che, com’è divenuto evidentissimo proprio in questi giorni, esigono interventi di altra qualità per rispondere alle legittime richieste dei cittadini in materia di sicurezza. L’ordinaria convivenza, alla quale il decreto si riferisce, non è un qualcosa da salvaguardare, ma da ricostruire con responsabilità e azioni comuni, di cui gli italiani devono essere i primi protagonisti. Con preoccupazione, perché le norme del decreto e il clima in cui nasce ci spingono in una direzione che aumenta la distanza dall’"altro", che favorisce la creazione di "gruppi sospetti", abbandonando la logica della responsabilità individuale.

Serve, davvero con "necessità e urgenza", un’altra forma di tolleranza zero. Quella contro chi parla di "bestie", o invoca i metodi nazisti. Non è questione di norme. Bisogna chiudere "la fabbrica della paura". E’ il compito di una politica degna di questo nome, di una cultura civile di cui è sempre più arduo ritrovare le tracce. Un’agenda politica ossessivamente dominata dal tema della sicurezza porta inevitabilmente con sé pulsioni autoritarie. Ricordiamo una volta di più che la democrazia è faticosa, ma è la strada che siamo obbligati a percorrere.

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