Guardata dal punto di vista dell’urbanistica e del progetto urbano, la parabola delle amministrazioni di centrosinistra a Napoli può essere delimitata da due fatti urbanistici ben definiti. Il primo è la disordinata e spiacevole vicenda di Bagnoli, emblema fisico, nei proclami demiurgici di fine anni Novanta, di quella che doveva essere la rinascita e la riconversione di un pezzo di città. L’ultimo è il Grande Programma per il centro storico, un arcipelago di progetti e di idee in attesa di finanziamenti.
Questa parabola, lunga circa quindici anni, è stata inframmezzata da proposte e progetti "decisivi", "imperdibili", "cruciali", "pronti" e rimasti sistematicamente vuoti annunci: l’inutile e sbracata variante urbanistica à la carte con la quale ci si propose di accogliere la Coppa America a Bagnoli; la strana fretta con cui si stava cercando, in modo stravagante, di realizzare un nuovo stadio, con annessi mega-servizi, nellìarea delle caserme a Secondigliano; il concorso di architettura, vinto dal francese Michel Euvè, per il nuovo waterfront e la riqualificazione dell’area monumentale del porto, sprecato assieme ai soldi investiti per la progettazione; le decine di milioni di euro ingoiati dal restauro dell’Albergo dei Poveri senza che nessuna funzione sensata vi sia stata ancora allocata, reiterando da anni un curioso vuoto di idee e fatti (Città dei Bambini, Stoà e altre genericità); il recupero delle Vele, edifici ingiustamente simbolo del degrado della periferia pubblica napoletana, martoriate prima da giudizi architettonici sommari, poi dal tritolo, poi da fasulli progetti di riconversione e riutilizzo (università, protezione civile); persino l’ampliamento del Centro Direzionale, già esecutivo e appaltato, è fermo in incomprensibili incognite burocratiche e nuove incertezze relative al project financing.
In questo vasto, e solo parziale, repertorio di occasioni annunciate e sistematicamente mancate, il Grande Programma sarebbe potuto ancora diventare una buona, ultima, opportunità, per la città, in grado di costruire almeno una "visione" credibile di futuro. In questo senso, proprio su questo giornale Carmine Gambardella proponeva utilmente l’immagine di una Napoli "città-fabbrica della conoscenza", da attuare promuovendo soprattutto azioni immateriali e non soltanto "fisiciste". In ultimo, la notizia del blocco, da parte della nuova giunta regionale, dei 222 milioni di fondi europei per il centro storico, non può che allarmare, perché ancora una volta strategie politiche poco comprensibili vengono fatte a spese della collettività.
È all’interno di questa cornice instabile, nella quale i ritardi che si stanno accumulando sono già insostenibili, che si discuterà, negli incontri che si terranno il 3 e 4 giugno a Napoli e Ravello, in occasione dell’ennesima visita in città della commissione Unesco, per valutare in che modo e in che tempi il "patrimonio" del centro storico di Napoli (del quale, è forse utile ricordarlo, solo il 16 per cento è interessato dal Grande Programma) sarà tra le azioni prioritarie dell’amministrazione comunale e del nuovo governo regionale. In particolare, come hanno già fatto gran parte degli altri siti italiani "patrimonio dell´umanità" (Firenze, la Val d’Orcia, Assisi), si dovrà discutere della redazione del cosiddetto Management plan (Piano di Gestione), che rappresenterà il riferimento normativo e prestazionale al quale dovranno adeguarsi tutte le azioni, materiali e immateriali, che riguarderanno il centro storico, garantendo la coerenza degli interventi. L’alternativa, già paventata, è la graduale espulsione dalla lista del patrimonio Unesco.
E questo mentre dovunque il marchio "Unesco" viene utilizzato come brand, attraverso il quale vendere il prodotto "città", o "territorio", e attorno al quale vengono modellati i progetti-guida, i canali prioritari di finanziamento, le politiche e persino i programmi politici, che di un tale marchio fanno elemento di comunicazione e diffusione di idee. Tra l’altro, come già denunciato nella precedente visita congiunta degli ispettori Unesco e Icomos del dicembre 2008, a Napoli appare ancora insufficiente il coinvolgimento trasparente di quanti possono fornire contributi a questo processo, aumentando la condivisione delle informazioni e delle soluzioni.
Con quali argomenti l’amministrazione comunale interagirà con i sempre più meravigliati delegati Unesco? La giunta Caldoro ha valutato con rigore gli esiti di scelte che rischiano di diventare poco strategiche e ulteriormente penalizzanti la città? Come evitare, insomma, che anche quanto programmato per il centro storico sia catalogato anch’esso, e tra non molto, fra i progetti soltanto enunciati o malamente portati a termine?