L’Europa agricola gira pagina. Più soldi andranno a chi proteggerà il paesaggio rurale. A chi curerà i terrazzamenti, le siepi, gli stagni, i fossi, i filari di alberi. A chi, invece delle immense estensioni di solo grano o di solo mais, preferirà differenziare le colture e quindi la biodiversità. A chi farà dell’agricoltura un fronte per frenare i cambiamenti climatici. La svolta era nell’aria. Ora è nero su bianco nella bozza della nuova Pac (la Politica agricola comunitaria) messa a punto dalla Commissione europea e valida dal 2014 al 2020. Adesso comincia un faticoso lavorìo perché i singoli paesi proporranno aggiustamenti. La traccia resta però questa ed è chiara la prescrizione a praticare un’agricoltura che recupera metodi tradizionali a scapito di un’agricoltura industriale.
«Stavolta, invece di una vaga esortazione, l’Europa investe fondi nella tutela del paesaggio, favorendo chi limita le emissioni di carbonio e i concimi chimici e contrastando un’agricoltura divoratrice di energia», spiega Mauro Agnoletti, professore alla Facoltà di Agraria di Firenze, fra i promotori di questa inversione di tendenza.
La Pac destina in sette anni 400 miliardi di euro all’agricoltura comunitaria. 1 miliardo e 200 milioni ogni anno sono indirizzati a interventi agro-ambientali, il cosiddetto greening. Uno dei punti di svolta è l’incentivo a chi diversifica le colture. L’articolo 30 stabilisce che per accedere ai finanziamenti, ogni agricoltore che possiede oltre 3 ettari di superficie deve praticare almeno 3 diverse coltivazioni: chi possiede 100 ettari può seminarne a granturco, per esempio, non più del 70 per cento, il 15 deve destinarlo a pomodori o melanzane, il restante 15 a legumi o ad alberi da frutta. «L’Europa finanzia chi salvaguarda un mosaico paesaggistico complesso, che è una delle caratteristiche più apprezzate del paesaggio rurale italiano e che però nel nostro paese si è andata perdendo, si è semplificata e banalizzata, non solo a causa dell’espansione edilizia, ma anche per l’abbandono dei terreni, circa 130 mila ettari l’anno, e per l’incedere dei boschi, che aumentano di 80 mila ettari l’anno», aggiunge Agnoletti.
L’Europa indica un’altra strada. Almeno il 7 per cento di ogni proprietà (recita l’articolo 32) deve essere costituito da "aree di interesse ecologico", che possono avere al loro interno terreni a riposo, terrazzamenti e altri "elementi caratteristici del paesaggio", che poi andranno definiti territorio per territorio, ma di cui la Commissione stila una prima lista: terrazzamenti, siepi, alberi in filare... «L’Italia dovrebbe includere altri elementi, come colture promiscue, viticoltura, olivicoltura e frutticultura tradizionale», insiste Agnoletti. E poi vanno conservati i prati permanenti e le superfici per il pascolo, che in Italia sono diminuiti da 6 milioni (1861) a 3 milioni di ettari odierni.
«È molto significativa l’attenzione ai terrazzamenti, che hanno caratterizzato per secoli il paesaggio italiano, dalla Valtellina alla Toscana alla costiera amalfitana», spiega Agnoletti. Laddove sono stati conservati, hanno anche impedito le frane, come in Liguria: «Per conto del Fai abbiamo condotto un’indagine nelle zone distrutte dall’alluvione di ottobre. Solo in 5 casi su 88 le frane hanno interessato terrazzamenti. Nel 95 per cento hanno investito terrazzi abbandonati e invasi da vegetazione arborea o arbustiva».