La Repubblica, 22 dicembre 2013
Quando sei in fila all’Agenzia delle entrate o alle Poste a pagare un bollettino, al forno a comprare il pane. Non ce n’è per noi, cosa volete che ce ne importi di quelli, che poi alla fine sono anche mezzi criminali. Sempre, quasi sempre. Va bene. Allora diciamo che sì, è così: se non ti salvi tu non puoi salvare gli altri, te lo spiegano bene ogni volta che l’aereo decolla. Prima assicurati di aver messo la tua maschera di ossigeno e il tuo giubbotto, poi aiuta il vicino. Il bambino, la donna incinta, il vecchio. Non importa. Prima metti al sicuro te stesso. Perfetto, è giusto. Se poi c’è di mezzo la paura, la diffidenza, il sospetto che il vicino possa essere o diventare un nemico, figuriamoci se c’è bisogno di dirlo. Sono anche mezzi criminali, quasi sempre. La tua maschera di ossigeno, prima.
Però poi arriva, un giorno, il gesto che azzera la rabbia livida del tuo personale benessere negato, il gesto che ti ricorda cosa siamo, tutti, prima dei nomi che ci danno e che ci diamo: esseri umani, siamo. Lo riconosci, quel gesto, perché lascia muti. La conversazione consueta si spegne in uno sguardo che si abbassa, una voce che borbotta, la replica che tarda ad arrivare, non arriva. Cos’hanno fatto? Si sono cuciti la bocca. Come cuciti? Cuciti. Ma le labbra? Le labbra, una insieme all’altra. E come? Con una specie di ago ricavato dal ferro di un accendino, e col filo di una coperta. Otto hai detto? Otto. Quattro tunisini e quattro marocchini. I nomi no, non li so. Non li dicono mai i nomi degli stranieri, solo il numero. C’è una ragione. Il nome ti porta diritto dentro una storia, dentro una vita. Il numero fa numero, e basta. Però dicono l’età. Questi sono ragazzi: vent’anni i più giovani, trenta i più vecchi. Hai detto venti? Venti, sì. Ce l’avete un nipote di vent’anni? Come vi sentireste se tornando a casa lo trovaste con la bocca cucita con ago e filo? Ve lo riuscite ad immaginare? Ecco, così. Tornate e lo trovate col sangue che cola dalla bocca cucita. Allora magari uno torna a casa e va a vedere su Internet le foto del posto dove è successo, il Cie di Porta Galeria a Roma. Cie, che vuol dire Centro di identificazione ed espulsione. Ci si può stare fino a un anno e mezzo in quel posto lì, con le sbarre delle gabbie ricurve verso l’interno, come quelle delle bestie pericolose in certi zoo. Che ora si chiamano bioparchi, in genere, e quelle gabbie non ci sono più nemmeno per le tigri. Allora magari anche se è il sabato prima di Natale e devi andare a comprare il bagnoschiuma per tua nuora, con quei pochi soldi che hai, ecco magari allora ci pensi che in Italia c’è una legge che si chiama Bossi-Fini (ha proprio i nomi di quelli che l’hanno fatta, Bossi e Fini, se ti concentri te li ricordi tutti e due) che autorizza a tenere in quel lager degli esseri umani che hanno l’età di tuo figlio, di tuo nipote, e certo anche tuo figlio e tuo nipote non hanno lavoro ma almeno non vengono annaffiati nudi d’inverno con una sistola, almeno parlano una lingua che la gente intorno capisce, almeno hanno te e se sono in pericolo ti possono chiamare al telefono, vienimi a prendere che c’è un problema serio. Loro no. Quelli che si sono presi le labbra con la mano sinistra e con la destra se le sono cucite non hanno nessuno da chiamare: si possono solo dare fuoco, e certo anche gli italiani lo fanno a volte, si possono ammazzare, anche questo capita senza bisogno di venire dall’Africa, o anche — ti possono dire con questo speciale martirio di ago e filo — nemmeno la parola gli è rimasta più per gridare. La parola, che viene dal pensiero e distingue l’uomo dalla bestia. Non serve più a niente nemmeno quella. Ecco, magari dieci minuti, allora, prima di uscire a comprare il pandoro, ci pensi.