“Giacimenti culturali”: indimenticata locuzione di qualche lustro fa respinta con sdegno dal mondo culturale tutto, in quanto scopertamente portatrice di una logica mercantilistica. Eravamo nei tardi anni ’80. A quegli stessi anni, non a caso è da far risalire l’esplosione del fenomeno delle esposizioni temporanee, per il quale si è arrivati a parlare di ‘mostrite’, a sottolinearne il carattere vagamente patologico dovuto alla proliferazione invasiva che ha man mano assunto. Quei processi di spettacolarizzazione finalizzati alla costruzione di eventi costruiti, per lo più, sui soliti noti eternamente esposti (da Caravaggio agli impressionisti o Picasso) conoscono attualmente una nuova stagione di fasti. Il sospetto, sempre più rafforzato, è che questa spropositata offerta di iniziative e manifestazioni dall’etichetta culturale, sempre più dilatate nel tempo, più ricche di offerte, più mediaticamente rilanciate e promosse abbia una finalità quasi esclusivamente “acchiappaturisti”: il nostro patrimonio è quindi utilizzato come magnete turistico in grado di raggiungere l’agognato obiettivo del “tutto esaurito”. Nessuno si azzarda più a proporre la bieca equazione beni culturali come petrolio, ma con ipocrita slittamento lessicale il combustibile fossile ha lasciato il posto a termini ben più glamour e politically correct quali “volano”, “risorsa”, “occasione di sviluppo”, “attrattore”, “asset dello sviluppo economico”.
Questa tendenza si coniuga perfettamente con quanto è successo, al passaggio del testimone governativo, al Ministero competente per i Beni Culturali, al quale le competenze sullo Sport, senza troppi rimpianti, sono state sostituite con quelle relative al Turismo, un compagno di strada apparentemente più consono, ma potenzialmente assai più pericoloso. Liaison quasi inevitabile, questa, e già adombrata nelle ripetute statistiche degli ultimi anni che confermano per l’Italia una buona tenuta, a livello mondiale, solo nel settore del turismo culturale, laddove in altri comparti dello stesso ambito la nostra offerta soffre ormai la concorrenza di molti altri paesi.
Che il turismo, ormai da alcuni anni prima industria a livello mondiale, sia uno dei settori prevalenti verso il quale si stanno reindirizzando molte economie europee e del bacino del Mediterraneo è un dato di fatto. E non è più tempo per puristi: la legittimità e opportunità di un uso turistico del nostro patrimonio culturale non può essere messa in discussione. Il problema è piuttosto di governare un fenomeno con strumenti più efficaci di quelli finora proposti, considerate le caratteristiche quantitativamente espansive che lo connotano. Come tutte le risorse fragili e irriproducibili, il bene culturale non può essere sottoposto ad uno sfruttamento che non sia monitorato costantemente e passibile di interdizione, qualora le condizioni di conservazione del bene stesso non ne consentissero più l’uso, o lo permettessero solo in condizioni limitate o di particolare protezione. Eppure l’uso a fini turistici del nostro patrimonio culturale è tuttora caratterizzato da elementi di improvvisazione e superficialità di analisi che tendono ad appiattirsi su di uno sfruttamento acritico, non programmato della nostra risorsa più importante, considerandola già “pronta per l’uso”.
In un’ottica di sostenibilità ambientale il settore turistico non differisce, quanto ad approccio, da qualsiasi altra attività ed è stato dimostrato come sia erroneo considerarlo una sorta di settore produttivo “light” - la così detta ‘industria bianca” - di minore impatto sull’ambiente rispetto ad altre; al contrario l’industria turistica quanto più si sviluppa in un luogo, tanto più consuma le risorse ambientali e culturali sulle quali poggia la sua fortuna economica. Suoi effetti collaterali ormai noti sono, oltre al depauperamento del patrimonio dovuto alla pressione antropica, la cementificazione e la speculazione da invasione di seconde case, il collasso di mobilità e, in generale, un’impronta ecologica pesantissima.
Dietro le città turistiche, le folle transumanti delle notti bianche e dei mille eventi che si riproducono per clonazione e senza alcuna innovazione, è in agguato la dissipazione del nostro “petrolio”, la congestione dei nostri centri storici e lo stravolgimento dell’intero territorio. Firenze e Venezia già da tempo conoscono i problemi dell’essere divenute città monoculturali le cui economie si reggono solo sul turismo: primo fra tutti lo snaturamento dei loro centri storici ormai trasformati in parchi a tema ad esclusivo consumo turistico. In questa direzione pare avviata Roma stessa, a proposito della quale non passa giorno senza che non ci vengano sbandierati nuovi record economico-turistici (maggiore crescita del PIL a livello nazionale, percentuale di presenze turistiche prossima a Parigi). Dietro i toni entusiastici che accompagnano il modello espansivo capitolino pare però mancare una strategia che invece miri ad un riequilibrio complessivo degli assetti sociali: così la rincorsa ad una visibilità fondata sulle quantità e indifferente ai contenuti (almeno a giudicare dal livello complessivo delle offerte), porta a lustrare le eccellenze (e allora mostre, inaugurazioni, feste) per il turista e a nascondere o rimuovere le sgradevoli, imbarazzanti disarmonie (mobilità, periferie, emergenza casa) con cui si confronta il cittadino.
Come e più di Roma, Napoli. Delle ipocrisie mediatiche e le distorsioni che questi meccanismi stanno innescando nelle nostre città, la metropoli partenopea sembra condensare in sé un paradigma completo. Una città che non ha risolto alcuno dei problemi strutturali che storicamente la caratterizzano e che anzi in questi ultimi mesi continua a restare sotto i riflettori per il ripetersi dei fenomeni criminosi e per l’emergenza rifiuti; metropoli in evidente declino sociale ed economico, estranea dalle produzioni immateriali tipiche delle città postindustriali, Napoli sta cercando un difficile rilancio come “normale città d’arte”. Allo sfruttamento turistico del suo patrimonio culturale è da alcuni anni indirizzato lo sforzo più cospicuo dell’amministrazione. Ma qui, ancor più che a Roma, questo sforzo appare come il frutto di una politica metropolitana incapace di innovazione e di invenzione. Da questa estate percorsi protetti sono stati predisposti dai pubblici amministratori affinché i turisti possano degustare le bellezze artistiche della città senza fare i conti con il degrado che continua ad attanagliarla: escamotage velleitario che consacra un fenomeno inquietante di suddivisione della città in aree privilegiate. E il riflesso di questa maniera sgangherata di arrivare ad una città a vocazione prevalentemente turistica è più che mai evidente nelle operazioni connesse alla promozione privilegiata dell’arte contemporanea. A imitazione di quanto sta avvenendo in molte città europee, oltre ai percorsi ‘classici’ legati alla celebrazione del patrimonio monumentale del centro storico,nel giro di pochi anni sono stati inaugurati ben due spazi espositivi vocati alla contemporaneità, il Madre e il PAN, il secondo dei quali, già in affanno con una media di dieci visitatori giornalieri, appare ancora totalmente privo di una programmazione di largo respiro. Da alcuni anni si susseguono poi le installazioni in spazi privilegiati quali Piazza Plebiscito e le mostre monografiche dedicate ai grandi nomi dello star system artistico al Museo Archeologico e a Capodimonte. Sedi nelle quali l’osticità e sovente la sgradevolezza dell’opera d’arte contemporanea sono opportunamente calmierate dal “dialogo con l’antico” o, nel caso di Piazza Plebiscito, dall’inserimento in una sorta di spazio contemplativo ormai definitivamente musealizzato.
Esempio culminante, per molti aspetti, della distorsione banalizzante cui l’arte contemporanea può essere sottoposta quando interpretata come momento di seduzione estetica o peggio come momento promozionale e politico-celebrativo, è rappresentato dalla cosiddetta metropolitana dell’arte. Pluricelebrata da una costante campagna mediatica, consiste nella presenza di opere di artisti contemporanei, alcuni dei quali di livello internazionale, negli spazi interni ed esterni di alcune stazioni - quelle centrali - della metropolitana tuttora in costruzione.
Nessuno nega la validità di talune opere d’arte inserite (ma già sul livello scarsamente significativo di altre occorrerebbe interrogarsi): ma tale valenza è spesso appiattita se non annullata dalla collocazione non solo antigerarchica, ma avalutativa e direi addirittura acognitiva della scelta espositiva. Al contrario di quanto avviene negli esiti più riusciti di public art, in questo caso la scissione dal contesto espositivo tradizionale ha purtroppo conservato le connotazioni negative della musealizzazione, intesa come macchina di riproduzione del consenso estetico. Il museo non è però solo una collezione di opere - altrimenti è un magazzino - ma attraverso i rimandi fra opera e opera diviene un vero e proprio strumento cognitivo e così la mostra ha un senso proprio perché estremizza e coagula attorno ad un tema una serie di oggetti prescelti a dimostrazione di un’ipotesi di ricerca precisa. Nelle stazioni napoletane ciascuna è concepita come un insieme di oggetti di contemplazione a sé stante, ma anche all’interno di uno stesso spazio le opere sono semplicemente giustapposte e spesso il loro inserimento non riesce a far scattare quella restituzione di senso tale che il contesto e il testo ne siano arricchiti e non depotenziati. Questa aporia espressiva deriva dal fatto che le installazioni solo in pochi casi possono davvero essere definite site specific nel senso che la critica più avvertita attribuisce al termine: il loro significato non si forma in relazione alle sue condizioni di cornice e raramente queste sembrano possedere una reale intimità di legame col luogo, ‘incorporano’ cioè il contesto di esibizione.
Senza ripensare, ad esempio, alle complesse elaborazioni museologiche che sottostanno agli allestimenti di una Tate Modern, prescindere da tutto questo costringe ad oscurare parte preponderante dei meccanismi e dei significati che presiedono al processo artistico. A commento del caso napoletano allora ritornano alla mente le definizioni di un viaggiatore disincantato e tendenzialmente diffidente nei confronti di musei e città belle quale Giorgio Manganelli era: le “cooperative di capolavori”, i “lager di squisitezze” i “parcheggi della nostra anima di gusto colto e raffinato”, non più strumento per leggere il reale e la sua complessità, bensì pubblicizzazione di se stessi e di una concezione da politica autocelebrativa dell’opera d’arte.
Quanto poi alla apodittica affermazione, più volte ripetuta, che questi interventi così come altri episodi di installazioni di arte contemporanea in altre aree pubbliche producano effetti significativamente positivi sul tessuto sociale della città e fungano da vere e proprie operazioni di trasformazione urbana, oltre che smentita dalla violenza del reale, pare improntata ad una concezione provinciale che ha trascurato i noti e ormai pluristudiati problemi dell’”indifferenza” con cui si scontra la public art soprattutto se concepita, come in questo caso, come segno di attardato mecenatismo da parte del regista politico di questa operazione (il ‘governatore’ Antonio Bassolino) e come disegno pedagogico imposto (il ‘museo obbligatorio’ di Achille Bonito Oliva, regista culturale). Che con queste opere si regali un momento non trascurabile di osservazione estetica è di per sé positivo, ma per innescare vere e proprie operazioni di riqualificazione urbana occorrono interventi culturali di ben altro impatto, oltre che inseriti in un programma comunicativo ed educativo specifico e prolungato.
Ulteriore elemento che contribuisce a svelare la valenza prevalentemente turistica dell’operazione è costituito dalla collocazione delle opere: presenti solo nelle stazioni centrali, contribuiscono all’abbellimento e alla lucidatura estenuante solo dei luoghi –vetrina del centro storico: quale maggiore sfida concettuale e sociale sarebbe stata collocare un Sol LeWitt o un Jannis Kounellis non a Piazza Dante, ma a Scampia. L’utente privilegiato della metropolitana dell’arte come del Madre, come di Piazza Plebiscito e di gran parte del centro storico è quindi il turista, non il cittadino:attraverso la seduzione puramente visiva dell’arte di fatto si sancisce la trasformazione della città da spazio per i cittadini a quinta scenografica per i turisti.
Come stupirsi allora che il grandioso e pluriannunciato sistema infrastrutturale da alcuni lustri in fieri nel sistema metropolitano partenopeo, lungi dall’apportare significativi miglioramenti in quella che è una delle aere più congestionate del territorio nazionale e in mancanza di dirompenti risultati - quali ci si aspetterebbe soprattutto a fronte di altrettanto dirompenti risorse economiche utilizzate e di tempi ormai dilatati - rilanci in continuazione in termini di grandiosità artistica? Ormai nel catalogo dei progettisti delle stazioni napoletane la panoplia delle archistars internazionali è pressochè completa: da Siza a Rogers, da Fuksas a Botta e via elencando. In effetti pare proprio che questa metropolitana così bella finora abbia tutt’al più scalfito quella che rimane una delle emergenze cittadine (Napoli al 95° posto su 103°, nella classifica Aci-Eurispes sui livelli di mobilità, ultima delle grandi metropoli) tanto da far richiedere al sindaco i poteri speciali e la dichiarazione dello stato di emergenza per traffico e viabilità.
Una città non è più moderna per l’inserimento di opere contemporanee, anzi queste divengono un’operazione passatista se introdotte con finalità puramente estetiche o estetizzanti e svuotate di quella carica dirompente che spesso le pervade.
E’ questo un modo alquanto povero, dal punto di vista culturale, di intendere l’arte, quasi fosse un lusso, una fuga in avanti con la quale una città dai mille problemi si pavoneggia.Al contrario l’arte contemporanea non è un lusso, ma anzi, nella sua forma migliore una modalità comunicativa in grado di sovvertire le gabbie del quotidiano, la vera arte è sovversiva in quanto ci costringe ad uno sguardo diverso sul reale, lo reinterpreta, lo ridefinisce e ci aiuta a comprenderlo e a superarlo. Negli episodi della metropolitana, al contrario, l’impressione è di un addomesticamento, di una banalizzazione dell’opera artistica e del suo significato. Nella vulva di Kapoor progettata come accesso alla futura stazione di Montesantangelo non c’è sovversione, ma solo scandalo, peraltro già così pubblicizzato in anteprima da aver perso ormai quel carattere dirompente che connota la grande arte.
A Napoli, come in altre realtà, è mancato quasi completamente, come a tratti comincia ad essere denunciato, un processo di elaborazione culturale intorno al senso dell’arte e al rapporto fra arte e politica. Questo fallimento appare in tutta la sua evidenza quasi grottesca, adesso che anche le aree monumentali privilegiate, ripulite non tanto per i cittadini, ma per i nuovi consumatori quali sono i turisti, sono investite da nuove violenze e da nuovi disagi di antica origine che erompono dai vicoli dei rioni e da periferie allucinate.
Non è un esito scontato: altre realtà stanno a dimostrare la possibilità di percorsi diversi. In Italia Torino su tutte (dove, fra l’altro, in tempi assai ridotti è stata costruita la metropolitana tecnologicamente più avanzata d’Italia) è ormai la città più vivace sul piano della contemporaneità. Il circuito culturale dell’arte contemporanea disegnato in anni di attenta programmazione, si ispira a soluzioni ben più organiche e strutturalmente convincenti, collegando fra di loro una serie di istituzioni i cui palinsesti espositivi si rimandano l’un l’altro e privilegiando manifestazioni non estemporanee, ma di alto livello e consolidata organizzazione. L’understatement sabaudo ha favorito l’uso di strategie culturali capaci anche di sacrificare tattiche mirate al perseguimento di visibilità politica a favore di un impianto culturale mirato a costruire e non solo ad abbellire.
E’ a partire da queste esperienze, che dobbiamo in ogni caso ripensare le regole, proporre nuovi modelli affinchè le percentuali di crescita economica di alcune delle nostre città turistiche siano il risultato di un premeditato modello di sviluppo capace di restituire sul medio-lungo periodo un miglioramento percepibile e maggioritario della nostra qualità della vita.
Perché la cultura non resti un bisogno privato, soggettivo, quasi voluttuario, senza alcun valore collettivo, ma divenga un patrimonio comune, una risorsa che deve rendere non tanto in termini di profitto o di visibilità del politico di turno, ma di benessere sociale.
Perché il turismo culturale sia davvero una conquista sociale, una nuova opportunità cognitiva, un’espansione delle esperienze di ciascuno.
Perché il turista torni ad essere un viaggiatore o almeno non sia solo un consumatore.
Il testo è pubblicato su IBC, rivista dell'Istituto de Bni Culturali dell'Emilia-Romagna, XIV, 2006, 4