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Paolo Beria
Trasporti guidati dai luoghi comuni
6 Settembre 2011
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I luoghi comuni su cui si basano le politiche dei trasporti «sono parte di oliati strumenti comunicativi supportati da precisi interessi lobbistici, formatisi fin dagli anni Ottanta in tutta Europa». lavoce.info , 6 settembre 2011

Il dibattito sui trasporti si fonda su un numero ridotto di concetti, molto semplificati e superficiali. E incentrati a favorire un aumento della dotazione di infrastrutture. Per rispondere a precisi interessi di lobby che si sono formati in tutta Europa fin dagli anni Ottanta. Per questo oggi la costruzione di una strada o di una ferrovia comporta in genere una sottostima dei costi e una sovrastima della domanda. Basterebbe una corretta informazione per smontare i luoghi comuni. Ma non è semplice perché si toccano corde irrazionali nella popolazione e interessi costituiti.

“Il gap che ci separa dai maggiori paesi continuerà ad aumentare e l’Italia rimarrà eterna inseguitrice”, “ho paura che ci scippino il corridoio per l’Europa”, “non possiamo perdere l’ultimo treno dello sviluppo”, “occorre sbloccare i fondi privati per la costruzione delle infrastrutture”, “il rischio è quello di perdere i finanziamenti europei”, “l’Italia è al centro dei flussi globali”, “le infrastrutture aprono la strada verso la ripresa”. Frasi simili sono ormai entrate profondamente nelle nostre convinzioni e i trasporti sono diventati argomento di discussione quotidiana. Ci si dovrebbe però chiedere il perché di tanto interesse e, soprattutto, capire quale è il suo influsso sui processi decisionali associati alle politiche di trasporto.

UN ELENCO DI LUOGHI COMUNI

A ben vedere il dibattito sui trasporti è assai limitato e costruito su un ridotto numero di concetti, molto semplificati e superficiali, cioè dei luoghi comuni. Ci limiteremo qui a un elenco, affatto esaustivo e rigorosamente bipartisan:

Il gap infrastrutturale e in generale il confronto con gli standard europei: l’Italia avrebbe reti meno estese degli altri paesi europei e, per questo, risulterebbe meno competitiva.

La confusione tra domanda e offerta e la convinzione che l’offerta generi sempre e comunque la domanda.

La necessità di puntare sui corridoi infrastrutturali a meno di non voler “perdere il treno per l’Europa”.

La pretesa che vi siano ingenti finanziamenti europei e privati, che risultano però bloccati dai veti incrociati e da italica lentezza.

La rigida associazione tra infrastrutture e sviluppo e occupazione: se costruiamo più infrastrutture, avremo più sviluppo.

Il tema dell’interesse del paese, minacciato dalla “anti-italianità” e da gruppi di “professionisti del no”.

Il mito “verde” secondo cui con adeguati investimenti in ferrovie e trasporto pubblico si potrebbe ottenere un significativo cambio modale.

Tutti questi argomenti vanno nella direzione dell’aumento della dotazione infrastrutturale. Non è qui possibile discutere ciascuno di essi per evidenziarne le incoerenze. A puro titolo di esempio, basti citare la scarsa propensione del settore privato a investire capitale di rischio nelle grandi infrastrutture, in particolare le estensioni della rete autostradale, le ferrovie e il Tpl.

La Tav italiana ha avuto un finanziamento privato pari allo 0 per cento. La capacità di autofinanziamento delle linee in progetto (Frejus, Brennero, Napoli-Bari, Terzo Valico) è sicuramente inferiore al 10 per cento, pur con ampie garanzie di rientro (i cosiddetti “canoni di disponibilità”) e pedaggi così alti da compromettere il realismo delle previsioni di traffico (1).


Anche i contributi europei sono inferiori a quanto viene dichiarato. Il valico del Frejus, l’opera per cui vi è il contributo atteso più alto, riceverà al massimo 3,3 miliardi di euro, pari a solo il 22 per cento, senza contare i costi relativi alla linea di accesso per cui non vi è nessun contributo (2). Nella maggior parte dei casi, poi, lo sforzo europeo si riduce a pochi punti percentuali, lasciando quindi allo Stato quasi tutto il costo.

Fonte: nostre elaborazioni da Turrò (1999); European Commission (3).

LE LOBBY DIETRO GLI SLOGAN

I luoghi comuni non costituirebbero un problema se rimanessero entro la dialettica interpersonale, esattamente come i commenti dei tifosi a fine partita. Purtroppo, non è così: i luoghi comuni plasmano pesantemente le politiche di trasporto. Solo per citare un numero, ben il 95 per cento in valore delle opere della “Legge obiettivo”, nata e presentata come lo strumento per velocizzare le infrastrutture fondamentali per il paese (e di cui lavoce.info ha documentato il fallimento, riguarda i trasporti (4). Non vi sono investimenti analoghi in telecomunicazioni, energia, reti idriche, sistemazione territoriale: praticamente solo mega-infrastrutture di trasporto.


Leggendo le dichiarazioni di giornalisti e politici, sempre più radicali ma sempre più superficiali, si può riconoscere una sorta di processo “ipnotico” con cui sono stati narcotizzati negli anni l’opinione pubblica e gli stessi operatori economici: idee superficiali legate alle esperienze quotidiane (“i treni sono sempre in ritardo”), vengono riprese e amplificate. Una volta rivestite di pseudo-scientificità da studi veri o presunti (“una ricerca dell’università tale o talaltra”), assurgono a dimostrazione di se stesse. Uscendo dai documenti ufficiali, diventano slogan, creduti e diffusi da larga parte della popolazione. Come parole magiche, ritornano poi nei piani e nelle decisioni governative, dove la necessità delle infrastrutture è data spesso per via assiomatica, diventando quindi realtà e arrivando a plasmare e costruire il mondo reale (5).


La domanda quindi è un’altra: questi concetti pseudo-tecnici, in grado di convincere l’opinione pubblica della necessità di massimizzare gli investimenti pubblici nei trasporti, si sono formati spontaneamente o sono stati, per così dire, alimentati? La lettura di importanti studiosi del settore dà una risposta forte, ma convincente: i luoghi comuni sono parte di oliati strumenti comunicativi supportati da precisi interessi lobbistici, formatisi fin dagli anni Ottanta in tutta Europa (6)

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Il beneficio per le lobby di costruttori, monopolisti, sindacati, industria, amministratori, è almeno triplice (limitandosi ai soli aspetti leciti): attirare ingenti investimenti nel settore delle costruzioni civili, cioè ad alto capitale e rischio relativamente basso; mantenere lo status quo, guardando alle sole infrastrutture invece che a un ben bilanciato mix di investimenti puntuali, liberalizzazioni, razionalizzazioni e trasparenza; sussidiare indirettamente l’industria, cioè i cosiddetti “campioni nazionali”, non essendo più possibile farlo direttamente.
Queste lobby non beneficiano dell’infrastruttura in sé, se non in minima parte (in forma di minori costi di trasporto), ma del processo di infrastrutturazione. L’interesse è quindi che l'opera non sia completa e che i problemi rimangano, in una tensione mai veramente risolta, basti pensare all’ossessivo confronto con l’estero, quale meta irraggiungibile. Tensione che si traduce in un opaco e continuo flusso di denaro pubblico verso gli interessi industriali, del settore delle costruzioni e, almeno in parte, anche della criminalità (7).


La soluzione del problema è semplice a parole e ardua nei fatti. L’opinione pubblica e alcuni decisori politici sono veramente e intimamente convinti che le infrastrutture in quanto tali siano la ricetta per il paese, che i problemi che vivono ogni giorno possano essere risolti da un ponte, che la vitalità della loro città sia compromessa dalla mancanza della Tav. Sono anche persuasi che, dato che la soluzione è ovvia ma non viene realizzata, ci sia “qualcuno” che rema contro.

Occorrerebbe quindi lentamente smontare, scardinare questo corpus di convinzioni e di argomentazioni retoriche soprattutto attraverso il puro uso dei numeri.
Un esercizio in questo senso è stato fatto da uno studio del 2003 che ha analizzato la coerenza della domanda e dei costi reali con quelli previsti per un ampio campione di progetti (8). Gli autori hanno dimostrato che vi è una sistematica e volontaria sottostima dei costi: l’88 per cento delle strade costa di più del previsto, il 30 per cento delle ferrovie costa dal 40 al 60 per cento in più. E al contempo una sovrastima della domanda: l’85 per cento delle ferrovie ha meno domanda del previsto, con un picco tra il 40 e il 60 per cento di errore. Tuttavia, la strada della corretta informazione dell’opinione pubblica e della decostruzione dei luoghi comuni risulta difficilissima perché deve toccare corde irrazionali, oltre che potenti interessi costituiti.

NOTE

(1) ResPublica, Strumenti innovativi per il finanziamento delle infrastrutture di trasporto, 2010, Milano.


(2) Il dato è precedente al recentissimo, opportuno, ridimensionamento, che però non cambierà le percentuali.


(3) European Commission (2004), Report from the Commission to the European Parliament, the Council, the European. Economic and Social Committee, and the Committee of the Regions on the implementation of the guidelines for the period 1998-2001, Commission staff working paper Sec (04) 220. European Commission (2007), Trans-European transport network. Report on the implementation of the guidelines 2002-2003 pursuant to article 18 of Decision 1692/96/EC, Commission staff working paper Sec (07) 313.


(4) Legambiente, Dieci anni di Legge obiettivo, 2011, Roma.


(5) Non si intende naturalmente sostenere che le infrastrutture di trasporto, grandi e piccole, siano in sé inutili. Ve ne sono di estremamente utili, di completamente inutili e di migliorabili. Il tema è, piuttosto, quali sono più utili e, soprattutto, quali ci possiamo permettere.


(6) Si vedano, tra gli altri: Turró M. (1999), Going trans-European. Planning and financing transport networks for Europe, Pergamon - Elsevier, Amsterdam; Peters D. (2003), Old Myths & New Realities of Transport Corridor Assessment: Implications for EU interventions in Central Europe in Perman A., Mackie P., Nellthorp J. (2003), Transport Projects, Programmes and Policies, Ashgate Publishing; ed Eddington R. (2006), The Eddington transport study, HM Treasury, London (UK).


(7) Relazione del ministro dell’Interno al Parlamento sull’attività svolta e sui risultati conseguiti dalla Direzione investigativa antimafia. Gennaio–giugno 2010, ministero dell’Interno, Roma.


(8) Flyvbjerg B. et al

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