Welcome to Bovisa, city of Milan. John Foot, londinese, 43 anni, insegna a Cambridge, ma la sua materia, Storia moderna italiana, ha deciso di approfondirla sul posto. E per passione, oltre che per amore, vive in Bovisa, da dove osserva la città e le sue trasformazioni, urbanistiche anzitutto e perciò sociali, raccontandole in libri acuti e originali. «È un posto perfetto per capire quello che succede a Milano, perché è un laboratorio».
In che senso?
«Vivo lì da 15 anni, da quando mi sono sposato con un’italiana. C’erano ancora qualche fabbrica e dei residui del quartiere operaio che fu. Poi 10 anni di abbandono totale, quasi di autogestione urbanistica. Adesso è un misto di studenti del Politecnico, creativi e designer che stanno nelle ex fabbriche, loft, artisti che gravitano intorno alla nuova Triennale. E stranieri. Con una buona integrazione, anche se ora sono arrivate baracche e campi nomadi».
E che metafora di Milano ne ricava?
«Quella dell’enorme delusione dal punto di vista urbanistico. La fine della grande industria dava un’opportunità di ridisegnare la città non solo dal punto di vista economico, ma anche degli alloggi, della destinazione degli spazi. E così è stato, ma senza visione di insieme. Si è lavorato a lotti, a pezzi. Il risultato è una città disordinata, caotica, inquinata, dove ci sono pezzettini meravigliosi accanto a pezzettini orrendi. E questo se vogliamo è a sua volta un’altra metafora del fatto che è venuto meno un substrato che unificava, un tessuto connettivo, un’idea comune. Insomma, la società».
È una visione terribile.
«Ma anche con lati positivi. Le periferie sono brutte, ma sono poco isolate: una volta erano ammassi di condomini squadrati o di case autocostruite, le cosiddette coree, che sorgevano nel deserto, e diventavano ghetti per gli immigrati meridionali. Adesso gli immigrati - non più meridionali ma stranieri - sono dappertutto, perché ognuno di loro ha agito per conto proprio e si è scelto dove vivere. Ora anzi sono gli stranieri le forze fresche, fisicamente e mentalmente, della città, solo loro hanno ancora spirito di iniziativa».
Ognuno fa per sé. Ma la politica? Una volta aveva un ruolo di regia.
«Ma ora non decide nulla, è molto indietro rispetto ai processi sociali, si limita a prenderne atto senza governarli o almeno indirizzarli. In questo il massimo è stato Albertini: la metafora dell’amministratore di condominio che aveva usato per sé gli calzava a pennello, non faceva niente e lasciava andare avanti la società. Si va al traino di minoranze illuminate e intraprendenti, come la moda e il design (che forse sarà la salvezza futura), o di eventi che vengono da fuori, come l’Expo. Manca una strategia di lungo periodo. E in una città che per decenni ha avuto una politica lungimirante».
Cos’è successo?
«Che questa politica riformista è stata distrutta da due cose. Il craxismo, che ha introdotto l’individualismo della peggior specie, quello che nega un tessuto sociale comune e anzi lo distrugge. Da me la signora Thatcher diceva "la società non esiste". E la sua lezione è stata applicata. E Tangentopoli, che ha eliminato l’iniziativa della politica stessa, che adesso gioca di rimessa, in contropiede».
A proposito, lei è anche un grande appassionato di calcio: ha scritto un libro per spiegare il football italiano agli inglesi.
«Sì, ed è un altro modo di raccontare l’Italia e la sua società. E anche in questo Milano è un buon osservatorio. Per dire, Herrera - un allenatore che non si sapeva neppure con precisione se fosse francese, spagnolo o argentino - è perfetto per spiegare la Milano del Boom, dove venivano a lavorare e avevano successo persone di mille posti diversi. Così come la reinvenzione della città degli anni Ottanta e Novanta è andata di pari passo con la reinvenzione del calcio fatta da Berlusconi: si spendeva e spandeva per dare spettacolo, e il divario tra ricchi e poveri aumentava. E tra gli scandali iniziali di Tangentopoli ci fu proprio il rifacimento di San Siro».
Lei ci va, allo stadio?
«Mi sono goduto dal vivo il mio Arsenal che batteva il Milan».