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Cristopher Hawthorne
Tra le rovine, qualcosa su cui ricostruire
23 Maggio 2006
Articoli del 2005
Il patrimonio storico e architettonico di New Orleans, dopo l'uragano. Los Angeles Times, 9 settembre 2005 (f.b.)

Titolo originale: Among the Ruins, Something to Build On – Traduzione per Eddyburg di Fabrizio Bottini

NEW ORLEANS – È difficile immaginare che una città abbia mai avuto un aspetto del genere. Se si prendesse una città del mondo famosa per i suoi canali – diciamo Amsterdam, o Venezia in Italia – e la si scuotesse violentemente girandola di lato, in modo tale da allagare metà dei quartieri, e lasciare l’altra metà a marcire e puzzare nel sole di fine estate, ecco, così si potrebbe cominciare ad avvicinarsi a quello che l’uragano Katrina e la successiva inondazione hanno fatto a New Orleans e ai suoi begli edifici scrostati e poliglotti.

Nascosta sotto lo strato di acque putride che copre ancora più di mezza città, c’è una quantità di danni che non potrà essere valutata per settimane, forse mesi. Ma sembra chiaro che la gran parte, se non tutta la città a nord e a est del centro dovrà essere rasa al suolo.

Ancora giovedì, nella zona di Lakeview, c’erano intere schiere di isolati fatti di case suburbane in stile ranch, costruite soprattutto dagli anni ’40 in poi, dentro a un paio di metri d’acqua. Intanto le parti asciutte della città – l’intero Quartiere Francese e Faubourg Marigny, insieme al Garden District, Uptown e gran parte dell’area terziaria centrale – non hanno subito molto più di qualche albero o linea elettrica abbattuti.

Nel Quartiere Francese, Jackson Square e i decantati edifici ad appartamenti Pontalba sono in buono stato, sorvegliati da militari svogliati che stanno seduti all’ombra sui gradini della Cattedrale di St. Louis. Solo un sinistro senso di vuoto impedisce ad alcuni isolati sulla Bourbon Street di apparire totalmente normali. Lungo St. Charles Avenue, sul lato occidentale, gli edifici rustici universitari delle Tulane e Loyola, o le grandi case private, mostrano a malapena qualche graffio.

Lo stato di queste zone in gran parte non danneggiate, e che contengono quasi tutti gli elementi più famosi caratterizzanti New Orleans e le attrazioni turistiche, fanno propendere per l’ottimismo riguardo al futuro della città. Sono i mattoni su cui edificare la sua possibili rinascita, e sembrano sorprendentemente solidi.

Ma questa è una città il cui fascino, come posto da visitare e per vivere, ha sempre avuto più a che fare con un complesso e diffuso tessuto di quartieri residenziali, che con poche icone architettoniche. Tennessee Williams sottolineava proprio queste qualità nelle indicazioni teatrali per Un Tram chiamato Desiderio: la parte di città attorno alla Elysian Fields Avenue, scriveva, “è povera, ma a differenza dei quartieri del genere in altre città americane possiede un fascino dissoluto”.

E in verità, profonde divisioni razziali e di classe a parte, New Orleans è uno dei pochi posti d’America che dimostra la sua età, nel senso migliore del termine.

Anche se molto vulnerabile alle calamità, quasi tutti i quartieri sono riusciti nel tempo a evitare tutti i progetti di rinnovo urbano o crassamente commerciali di cui altrove si è pagato il prezzo. Ciò si deve in parte all’intrattabile povertà di qui, che ha reso grandi parti di New Orleans poco attraenti per i grandi costruttori nazionali, e in parte a un movimento di conservazione di lunga data.

Katrina, in altre parole, è riuscita a fare a questa città quello che non sarebbe riuscito a una palla da demolizione.

E se esiste un obiettivo per cui architetti e urbanisti americani si sono battuti negli ultimi decenni, è il tentativo di creare dalle macerie edifici legati alla storia urbana, senza per questo apparire banali o sdolcinati. Una volta seppelliti i morti e con la città in ripresa – non dimentichiamo che sta di fronte a quello che probabilmente è il più grosso problema di ripulitura da veleni della storia americana – questo sarà l’obiettivo per New Orleans.

Di solito, vagabondare attorno e guardare gli edifici è esperienza completamente visuale. Ma farsi una breve passeggiata architettonica qui, questa settimana, significava avere tutti i cinque sensi all’erta, spesso letteralmente aggrediti.

C’erano i suoni degli elicotteri, delle imbarcazioni, dei cani randagi nell’aria. Gli antifurto delle auto e dei sistemi di sicurezza degli edifici suonavano incessantemente. Gli aeratori su una moderna torre a uffici su Lafayette Square rombavano come un 747. L’acqua ferma puzzava di fogna, o peggio; avvicinandosi, bisognava badare a dove si mettevano i piedi, a qualunque cosa si toccasse. Quando gli edifici prendevano fuoco – e accadeva spesso all’inizio della settimana – la prima sensazione dell’incendio era un sapore acido sulla lingua.

Solo verso il margine sud-occidentale della città, vicino a Audubon Park, c’era una sensazione di calma. La stupefacente assenza di qualunque danno, lì, non era ovviamente un caso: le famiglie che ci hanno costruito le case più ricche della zona erano pienamente consapevoli della differenza fra terre alte e terre basse, a New Orleans.

Su Chestnut Street nel Garden District, su una delle finestre del secondo piano in una casa dall’aspetto particolarmente solido col tetto a abbaini, era inchiodato un pezzo di compensato con scritto: No Way, Ivan. A quanto pare non solo la casa, ma anche l’asse di compensato erano usciti intatti dall’uragano dell’anno scorso, Ivan.

Sono gli edifici più nuovi ad aver subito il peggio dalle frustate di vento di Katrinae dalla successiva alluvione. Il Superdome traballava già prima che migliaia di sfollati si piazzassero lì. Decine di finestre all’ultimo piano dell’albergo Hyatt sono state spazzate via. Lungo la Interstate 10 a ovest della città, almeno una delle nuove torri con pareti a specchio aveva avuto strappate via dalla tempesta intere parti delle facciate.

La maggior parte dei più noti edifici di New Orleans del XX secolo, però, non ha subito danni significativi. Si tratta ad esempio dei due palazzi per uffici di Gordon Bunshaft dello studio Skidmore, Owings & Merrill, o della Piazza d’Italia di Charles Moore del 1978, uno spazio postmoderno il cui colori vivaci e stile impertinente la fanno sembrare a casa, qui.

L’idea della scorsa settimana del portavoce della Camera J. Dennis Hastert (dell’Illinois) secondo cui “non ha senso” usare fondi federali per ricostruire la città sul sito attuale può non essere stata ben ponderata riguardo ai tempi, ma non è completamente illogica. New Orleans continua ad affondare, un po’ di più ogni anno, il che significa che proteggerla dagli uragani futuri può richiedere non solo argini più solidi, ma sollevare l’intera città.

Ma sarebbe peggio che macabro, lasciare semplicemente vuoti i quartieri più colpiti, o addirittura restituirli per sempre al fondo del lago. Una delle possibilità che si stanno discutendo è di realizzare un enorme parco – magari estendendo City Park lungo il lago a est e ovest per la maggior parte dell’area che ora è sommersa- sostenendo contemporaneamente il trasferimento degli abitanti altrove, in città o nella regione (ci sarà anche bisogno, certamente, di un monumento commemorativo).

La promessa di sostanziosi aiuti federali e privati fa già sognare architetti e urbanisti, su cosa potrebbe diventare, questo parco: oltre che ad altri interventi sulla città e i trasporti già contemplati.

Queste fantasticherie hanno un precedente nella storia di New Orleans: fu il denaro federale – per essere esatti, quello della Works Progress Administration durante il New Deal – a sostenere la realizzazione di gran parte di City Park. E lo stesso vale per i primi sforzi di restauro nel Quartiere Francese. E fu quando l’interesse di Washington per la città declinò, che i progetti infrastrutturali, come quelli per gli argini, restarono disastrosamente abbandonati.

Nota: il testo originale al sito del Los Angeles Times ; su temi analoghi di carattere storico, tradotto qui su Eddyburg si veda almeno l'articolo di Gary Strauss da USA Today sul "genius loci" di New Orleans (f.b.)

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