La chiesa romanica di San Pietro di Coppito è stata in piedi bene o male sette secoli, sfidando i terremoti che hanno più volte devastato la conca dell'Aquila. Fino al 6 aprile 2009. Adesso ti viene incontro sventrata, uno spettro nella città deserta, quasi un "fermo immagine" del sisma. Sbriciolati gli affreschi medievali, il campanile ridotto a un mozzicone, la campana di bronzo schiantata a terra, simbolo di una comunità espropriata della sua anima. Pier Luigi Cervellati gesticola da dietro un cumulo di macerie, in mezzo al sagrato: «Lei non ci crederà, ma questa è una fontana del Quattrocento. Le hanno scaricato addosso quintali di detriti, come una pattumiera. È uno sfregio intollerabile. Ma lo sanno, questi signori, cosa rappresentano per la gente di qui le fontane? Sono la loro identità, insieme alle chiese e alle piazze». Il professor Cervellati, bolognese, architetto e urbanista tra i più autorevoli, è all'Aquila con una delegazione di Italia Nostra, tra cui il segretario generale Antonello Alici e l'ex-presidente Giovanni Losavio, impegnati in una battaglia per il recupero del centro storico del capoluogo abruzzese. Non pretendono vincoli anacronistici, semplicemente che oltre a costruire a tempo di record quartieri satellite con le tecnologie antisismiche più sofisticate si pensi a salvare e far rivivere il cuore antico della città, come chiedono quelli che nella "zona rossa" abitavano e lavoravano fino alla tragica notte del 6 aprile, e che cominciano giustamente a perdere la pazienza.
«Immota manet» dice il motto sullo stemma della città. Più immota di così: da quasi un anno l'Aquila è imbalsamata, con tutte le sue ferite aperte, avviluppata in una ragnatela di ponteggi. E trentottomila aquilani sono ancora senza casa. Camminiamo lungo la via Sassa, tra facciate sbrecciate di palazzi cinquecenteschi e barocchi, cornicioni penduli e bifore pericolanti, facendo lo slalom in mezzo a mucchi di macerie. Non c'è un'anima in giro, a parte qualche vigile del fuoco e qualche operaio al lavoro. Hanno riaperto la sede della Banca d'Italia, il caffè dei fratelli Nurzia (quelli del famoso torrone), un'enoteca in piazza del Duomo. Per il resto, soltanto lucchetti, transenne e saracinesche abbassate. Cervellati allarga le braccia: «Quando ponteggi e puntellature verranno rimossi, le murature crolleranno. E spesso questi interventi sono pure sbagliati, i tubi entrano nelle finestre, non si potranno più fare lavori all'interno. È una forma di accanimento terapeutico dal costo enorme. E adesso, con la fine del regime commissariale, regione ed enti locali devono preparare piani di recupero. Operazioni immani, ci vorranno mesi se non anni per poter riabilitare la città storica. Ammesso che ci si riesca».
Leggiamo sulla guida rapida del Touring, edizione 1975: «L'Aquila, m. 714 ab. 60131, capoluogo di provincia e di regione, sede arcivescovile. Città principale dell'Abruzzo per arte e storia, situata sopra il declivio di un colle sulla sin. dell'Aterno, in un'ampia conca cinta da alte montagne (catene del Gran Sasso e del Velino-Sirente). Conserva la bella impronta medievale... Fondata attorno alla metà del secolo XIII... si arricchì di numerose architetture religiose, che ora caratterizzano il volto della città».
Chiosa Cervellati: «L'Aquila è uno splendido esempio di quella rinascita urbana e religiosa che l'Italia ha vissuto tra il mille e il milleduecento. Una città-territorio, che a quei tempi si identificava nel Comitatus Aquilanus, una forma di insediamento a rete. Non per niente si favoleggia di novantanove castelli, novantanove chiese, le novantanove cannelle della fontana più famosa di qui. Chiesa piazza e strade formano un bene immateriale unitario, le parrocchie sono un punto di riferimento territoriale e della socialità, per credenti e non credenti. E guardi in che stato sono. Scoperchiate, a pezzi, ingombre di pietre e calcinacci. E dopo un anno, nessuno ha ancora neppure cominciato a restaurarle. Hanno fatto vedere in tv il presunto salvataggio della chiesa del Suffragio: l'elicottero che appoggiava delicatamente una cupola in fibra di carbonio. Eccola lì, la vede? Certo ripara dalla pioggia, ma il tamburo che sta sotto è lesionato, non so quanto potrà reggere. Ora io domando: il vescovo ha intenzione di riaprire le chiese? Nel regime del concordato, la manutenzione spetterebbe allo Stato. Ma io ho sentito con le mie orecchie il segretario generale dei Beni culturali dire che il restauro del duomo di Venzone in Friuli, dopo il terremoto del 1976, è un simulacro, una cartolina illustrata. Come la Fenice e il Petruzzelli. Io non credo che lo Stato possa abdicare alla sua funzione di tutela. Non c'è bisogno di manuali di restauro, basta un po' di buon senso. Certo se non si numerano le macerie, se si fa un cocktail di pietre e calcinacci, ricostruire poi sarà una missione impossibile». Le cifre fanno venire i brividi: quattro milioni di tonnellate di pietre e mattoni da rimuovere, che potrebbero presto salire a cinque. «Ci sono fondi pubblici? – si interroga Cervellati –. In che misura possono contribuire i proprietari?
Nell'incertezza nascono leggende metropolitane: è vero o non è vero, per esempio, che l'ignoranza porta a vendere le case antiche e a trasferirsi nelle New Town?».
Intanto, oggi i cittadini del centro storico si preparano a invadere pacificamente – come domenica scorsa – la zona transennata, questa volta armati di carriole e cassonetti per cominciare a rimuovere un po' di detriti. Li guida un redivivo "Comitatus Aquilanus", che si richiama polemicamente ai padri fondatori. Sobillati dai mercanti di voti, in vista delle prossime regionali? Può darsi. Ma poi vai nei paesi distrutti, col sindaco in tuta ginnica alla Bertolaso, e la gente ti avvicina, ti grida in faccia la sua rabbia, e non sono agit prop. Cosa scriveranno sulla guida del Touring del 2015, o del 2075? E dove porteranno i turisti? A visitare le New Town?