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Lucia Tozzi
Tirana e la biennale
23 Maggio 2006
Articoli del 2005
Sguardi ambigui sulla realtà urbana postcomunista. Versione integrale dell'articolo de il manifesto del 10 ottobre 2005

La Biennale di Tirana cade negli anni dispari insieme alle biennali di Venezia, Valencia, Mosca, Praga e Istanbul; come se non bastasse, nel 2007 si troverà anche a coincidere con la dodicesima edizione della quinquennale Documenta di Kassel. Un affollamento che certo non contribuisce ad attirare nella capitale albanese l’ormai stremato establishment del circuito internazionale dell’arte, ma che in compenso impone alle manifestazioni più “periferiche” un orientamento fortemente site-specific.

La ricerca di una relazione osmotica con il territorio e la popolazione di un paese o di una determinata area geografica rappresenta di fatto uno dei modi più efficaci di arginare la serialità delle biennali: non ci si limita a passare in rassegna le nuove tendenze o le punte eccellenti della produzione artistica internazionale, ma si organizza un tipo di evento in cui gli artisti sono invitati a reagire criticamente alla situazione sociale e politica del luogo, a intervenire nel contesto ambientale e a interloquire con gli abitanti. Cinicamente, si potrebbe persino ipotizzare che la ragione del successo di questa formula sia un interesse voyeuristico nei confronti di regioni di cui si sa poco, un nuovo genere di esotismo.

L’operazione che ha dato notorietà a Tirana e alla sua biennale risale al 2003, quando gli artisti ridipinsero un numero consistente di palazzi con i colori più chiassosi, concordandoli con i residenti: si trattava di un’opera pubblica partecipata, e per di più con una chiara valenza simbolica (spazzare via la grigia impronta dell’era comunista), che non poteva mancare di suscitare l’entusiasmo generale.

La terza edizione della mostra, Sweet Taboos (10 settembre-10 novembre 2005), scaglionata in cinque episodi, continua a riflettere sul postcomunismo. Gli edifici che ospitano la mostra, la Galleria Nazionale d’Arte, di epoca comunista, e il Kompleksi ‘Vila Goldi’, un enorme centro commerciale ancora in costruzione, sono metafore fin troppo didascaliche del passaggio brusco da un sistema rigido a un vuoto di regole che non accenna a essere colmato.

Il terzo episodio, Democracies, curato dalla slovena Zdenka Badovinac, è quello più strettamente politico. Le opere raccolte mettono in questione il tabù che le economie parallele (dalla privatizzazione selvaggia al traffico di donne, agli insediamenti e mestieri informali) rappresentano per i modelli europei di democrazia. La sezione di Hou Hanrou è focalizzata sul confronto con l’arte del realismo socialista all’interno della galleria (Go Inside), mentre Bittersweet, della svedese Joa Ljungberg, esplora le relazioni tra sesso e potere. I due direttori della biennale, Edi Muka e Gëzim Qëndro, hanno curato Temptations, sul potere come tabù, che mostra in primo piano, tra le infinite interpretazioni del tema, un quadro del 1974 raffigurante il Congresso degli 81 partiti comunisti di Mosca, una sorta di palinsesto della censura: la fitta trama delle cancellature, delle distorsioni e delle segregazioni che ha subito racconta la storia dell’isolamento politico dell’Albania.

Dalle fotografie perturbanti di Annee Oloffson, autoritratti deformati dall’intrusione delle mani del padre o della madre, alle installazioni di Platforma 9.81 o di Rubin Mandija che denunciano l’appropriazione dello spazio pubblico, sono molte le opere interessanti.

Tuttavia l’eccezionalità di questa biennale, l’elemento che la rende un’esperienza del tutto atipica, non è il frutto di una scelta deliberata dei curatori. È, al contrario, un fenomeno di resistenza da parte della città, un’opposizione sorda che impedisce allo spettacolo di realizzarsi. I colori dei palazzi, orgoglio dell’amministrazione del sindaco-artista Edi Rama, sbiadiscono inesorabili, il proiettore del cinema Agimi si inceppa, i lavori stradali rendono impraticabile il viale d’accesso alla Galleria Nazionale il giorno del vernissage, la performance di Regina Galindo – che si fa appendere nuda, in attesa di mestruazioni chimicamente indotte, nel garage del kompleksi Goldi, davanti a operai che sbalorditi continuano a lavorare – fallisce, mentre un guardiano si apposta in una saletta video qualche metro più in là, nella sezione Bittersweet, per molestare le donne sole che gli capitano a tiro.

Roberto Pinto, che nell’episodio To Loose Without Being a Looser propone un’idea della sconfitta come rifiuto di partecipare all’ideologia della competizione e della vittoria a ogni costo, è fortemente tentato di appropriarsi di questa rugosità del reale, di farla sua, ma la specificità di Tirana sfugge anche alla sua presa. Uno spiritello situazionista si aggira per le vie, senza che peraltro nessuno lo abbia chiamato.

Quello che la biennale non coglie, se non in minima parte, è la dialettica tra il rifiuto iconoclasta nei confronti di qualunque spazio, uso od oggetto associabile alla dittatura comunista, condizione comune a tutta l’area postcomunista, e il pensiero che alcune componenti di questo rifiuto appartengano alla sfera degli stereotipi. Uno di questi è certamente lo squallore attribuito alla città comunista: pur non avendo un vero e proprio centro storico, Tirana (e anche una parte di Bucarest, come si evince dall’appassionante libro di Giuseppe Cinà sull’argomento appena pubblicato da Unicopli) possiede un bell’impianto urbano, strade alberate e palazzi di epoca comunista che nonostante l’aspetto scalcinato mostrano un buon design, e l’insieme di questi elementi non ha prodotto solo una città civile, ma anche piena di fascino, in cui i caffè, i locali e i negozi aperti dopo la caduta del regime di Enver Hoxha si sono inseriti nel modo più naturale. Bar e ristoranti sono però solo uno degli aspetti della liberalizzazione: circa un terzo della popolazione rurale si è riversato su Tirana, raddoppiandone la popolazione e trasformandola in una sorta di laboratorio di urbanizzazione accelerata. Nel giro di un decennio la città è stata sommersa prima da baracche e chioschi abusivi – in parte rasi al suolo dal sindaco – poi da una speculazione selvaggia che respinge i poveri ai margini. L’energia convulsa di queste migliaia di persone e automobili in lotta per l’accaparramento dello spazio vitale si osserva ancora meglio dall’alto, dove la prospettiva, invece di aprirsi come di consueto, viene soffocata da alti palazzi color pastello, pieni di archetti e timpani postmoderni, a distanza di cinquanta centimetri l’uno dall’altro.

Di fronte a questo scenario di prevaricazione viene da pensare che il vero tabù, ciò di cui è più difficile parlare e proprio per questo bisogna parlare, sia quel conglomerato di desideri e aspirazioni a una “buona vita”, a un uso pubblico, razionale e condiviso della propria esistenza che, a prescindere dalle sue realizzazioni storiche novecentesche, si è sempre celato e insieme rivelato nella parola “comunismo”.

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