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Antonio Cassese
Terroristi, guerriglieri e la giustizia internazionale
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Preoccupante l’approdo cui giunge il diritto internazionale: i partigiani erano "terroristi"? Lo diceva Kesserling. L’articolo è da la Repubblica del 6 settembre 2005. Con una postilla

Cosa deve intendersi per "terrorista"? Di primo acchito, tutti concordiamo che gli autori dell’orrendo attacco dell’11 settembre 2001 a New York e Washington e delle devastazioni del 7 luglio a Londra erano terroristi. Ma altri casi meno netti fanno sorgere dubbi. Gli iracheni che all’inizio del mese hanno fatto saltare a nord di Bagdad un camion pieno di marines possono essere definiti terroristi? E i due arabi che il giudice Clementina Forleo aveva scarcerato definendoli "combattenti" o "guerriglieri", dovevano essere invece qualificati come terroristi, come ritiene invece il procuratore Spataro nel suo appello? È giusto condannare come terrorista, come fecero i giudici statunitensi, Timothy McVeigh, che nel 1995 fece saltare in aria un edificio governativo ad Oklahoma City, ammazzando 168 persone per vendicare l’uccisione da parte dell’Fbi dei membri di una setta religiosa a Waco, nel Texas? Avevano ragione Kofi Annan e Ariel Sharon, quando hanno definito terrorista il militare israeliano che il 5 agosto scorso ha aperto il fuoco contro alcuni civili in un villaggio druso alla periferia di Haifa, uccidendone 4, per protestare contro il piano Sharon per il ritiro da Gaza? E si può condividere la qualifica di terroristi data dal ministro Roberto Calderoli a quelli che lanciano sassi dai cavalcavia? Insomma: esiste una definizione accettabile di "terrorista" e "terrorismo", o è vero, come è stato detto, che i giuristi "annaspano" nel buio?

In realtà da tempo esiste in tutta la comunità internazionale un accordo di fondo sulla definizione. Questa però non è stata tradotta in norme giuridiche rigorose perché i Paesi arabi da anni insistono su una eccezione: a loro giudizio i "combattenti per la libertà" (sudafricani che lottavano contro l’apartheid, palestinesi che si battono contro Israele nei territori occupati, ecc.) non possono essere considerati in alcun caso terroristi, neanche quando le loro azioni violente colpiscono direttamente civili, perché la loro lotta è legittimata dal fine che perseguono (liberazione di un popolo). Ancora nel 1998 e nel 1999 Convenzioni internazionali della Lega araba e della Conferenza islamica prevedevano espressamente quell’eccezione. Persistendo il disaccordo tra paesi arabi e tutti gli altri Stati sull’eccezione, mancava anche un’intesa generale sulla regola. Per fortuna negli ultimi tempi la Lega Araba, pur mantenendo ferme le sue posizioni ideologiche e di principio sulla legittimità delle lotte di liberazione nazionale, ha ammesso che azioni violente contro civili, anche se intraprese da "combattenti della libertà", costituiscono atti di terrorismo. Rimangono riluttanze della Conferenza islamica, guidata da Stati più radicali. La Conferenza, soprattutto per ragioni ideologiche, blocca i lavori delle Nazioni Unite su una Convenzione generale sul terrorismo: pur ammettendo che violenze contro civili, ad esempio nei territori palestinesi occupati, possano essere qualificati come crimini di guerra, non vuole definirli atti di terrorismo. Ma se non è zuppa è pan bagnato: le norme internazionali sui conflitti armati vietano anche, e criminalizzano, "atti o minacce di violenza il cui scopo primario sia quello di diffondere il terrore nella popolazione civile". Insomma, esistono i crimini di guerra di terrorismo.

Oggi si è dunque faticosamente arrivati ad un consenso sostanziale e quasi unanime sul terrorismo, come è dimostrato dalle leggi di numerosissimi Stati (ultima quella italiana, contenuta nel pacchetto Giuseppe Pisanu) e da tanti trattati e risoluzioni internazionali. Qual è la definizione su cui si è d’accordo? Eccola. È terrorista chiunque 1) commetta un’azione criminosa (omicidio, strage, dirottamento di aerei, sequestro di persona, ecc.) contro civili o anche contro militari non impegnati in un’azione bellica (che ad esempio partecipano ad una funzione religiosa); 2) compie l’atto al fine di coartare un governo, un’organizzazione internazionale o anche un ente non statale (ad esempio, una multinazionale); questa coartazione può avvenire diffondendo il terrore nella popolazione civile (si pensi agli attentati di Londra del 7 luglio) o con altre azioni (ad esempio, facendo saltare, o minacciando di far saltare, il ministero della Difesa, la banca nazionale, o un’ambasciata straniera; o sequestrando il capo del governo o anche di una multinazionale, se questa ad esempio non dà armi a guerriglieri); 3) per una motivazione politica o ideologica (quindi non per fini di lucro o per impulsi personali di vendetta o altro).

Rivediamo ora, alla luce di questa definizione, i vari esempi che ho dato all’inizio, per stabilire quale rientra e quale no nella categoria di "terrorista". Gli iracheni che hanno fanno saltare in aria un camion pieno di marines non hanno compiuto un atto terroristico, perché hanno colpito militari impegnati in azioni belliche; tuttavia, poiché agivano senza portare apertamente le armi, ossia non come legittimi combattenti, sono comunque colpevoli di un crimine di guerra, e possono quindi essere debitamente puniti.

Gli arabi scarcerati dal giudice Forleo potrebbero essere definiti "combattenti" o terroristi, a seconda delle circostanze di fatto: la Forleo ha ritenuto che quelle circostanze erano tali da farli considerare combattenti, mentre Armando Spataro ha concluso in senso contrario. Ma la distinzione giuridica in sé, delineata dalla Forleo, tra terroristi e coloro che partecipano ad azioni belliche rispettando sia le norme del diritto umanitario sui legittimi combattenti sia quelle sulla tutela dei civili, è corretta. Invece, l’azione di McVeigh non costituiva un crimine di terrorismo, perché mancava la motivazione politica o ideologica: era semplicemente una strage, come quella del militare israeliano. In entrambi i casi si trattava della vendetta o della protesta di un folle. Anche i forsennati che lanciano pietre dai cavalcavia non sono terroristi, perché non vogliono coartare l’azione delle autorità, e non hanno alcuna motivazione politica o ideologica. Sono colpevoli di omicidio volontario o di strage.

Queste distinzioni non sono oziose. Non solo in Italia, ma anche altrove gli strumenti investigativi a disposizione delle forze dell’ordine, così come le pene, cambiano a seconda della definizione dell’azione criminosa. Sarà perciò utile usare le "etichette" giuridiche con avvedutezza, non a sproposito, come fanno taluni qui da noi.

Postilla

Inquietanti le definizioni raccontate, senza batter ciglio, da quel serio giurista che è Antonio Cassese. Secondo la definizione che egli riporta sarebbero infatti considerati terroristi i partigiani della guerra di liberazione nazionale che contribuì a sconfiggere il nazifascismo in Italia, le analoghe azioni del maquis in Francia, della Resistenza in tanti altri paesi europei occupati dai nazifascisti, i combattenti del FLN in Algeria (ricordate il bellissimo film di Gillo Pontecorvo?). Sarebbero invece assolti gli autori degli atti di “guerra dichiarata” che portano allo sterminio di migliaia di civili. E’ proprio vero che sganciare la forma del diritto dalla sua sostanza, e la legge dalla storia, può portare a conseguenze aberranti

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