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Alberto Ziparo
Territori nomadi
10 Dicembre 2009
Articoli del 2009
Nuovi modelli di gestione del territorio: l’”utopia concreta” del Laboratorio di progettazione ecologica del Politecnico di Milano. Da il manifesto, 10 dicembre 2009 (m.p.g.)

Nuovi modelli di gestione del territorio: l’”utopia concreta” del Laboratorio di progettazione ecologica del Politecnico di Milano. Da il manifesto, 10 dicembre 2009 (m.p.g.)

Alberto Ziparo

A ognuna delle sempre più frequenti catastrofi «naturali» che colpiscono il fragile territorio italiano, offeso quotidianamente nei suoi ecosistemi fondamentali, cresce la denuncia dell'insensata distruzione del Bel Paese.

Eppure quasi subito l'agenda politica e mediatica nazionale dimentica le varie Sarno, Scaletta di Messina, L'Aquila (a meno di farne set per i propri show televisivi) e continua a propinarci Grandi Opere, Megaeventi, Piani Casa - operazioni quasi sempre socialmente inutili e ecologicamente dannose, ma soprattutto insensate per i territori di riferimento, segnate cioè dalla perdita di quello che i geografi territorialisti chiamano senso del contesto, e oltre tutto spesso destinate a fallire dal punto di vista economico-finanziario, come è stato il caso, per esempio, delle Olimpiadi di Torino (o anche - uscendo dall'Italia ma restando nel tema delle Grandi Opere - dell'EuroTunnel).

Un'idea degli anni '60

Interpretare la bizzarria - o più propriamente l'assurdità - delle attuali politiche territoriali non è facile: anche le analisi legate alle ricadute del modello di sviluppo quantitativo e globalizzato non bastano più. Non si spiegherebbe infatti come mai si vogliano collegare territori le cui relazioni declinano, o perché in un paese come l'Italia, dove già esiste una ventina di milioni di stanze vuote, si discuta da quasi un anno di un Piano Casa Straordinario per realizzarne un altro milione. In realtà oggi non si costruisce né per il mercato sociale, né per il mercato libero, ma per alimentare, anche tramite la rendita edilizia e fondiaria, i meccanismi di quella finanziaria (acquisire immobili e tenerli vuoti, ma a prezzo e a valore alto, oppure prendere commesse per opere, che magari non si realizzano, ma costituiscono mezzi utili a tenere alto l'indicatore di mercato del titolo di riferimento).

Nonostante i continui ridimensionamenti e l'accattivante slogan di presentazione «Nutrire il Pianeta, produrre energia per la vita» (che sembra coniato da Al Gore per la campagna di Obama), anche l'Expo 2015 di Milano si caratterizza per la bigness delle opere legate alla manifestazione (padiglioni, alberghi, attrezzature, infrastrutture) che vanno ad alimentare - più che la Terra - le già gravi congestioni di cemento, di traffico, di rumore, di veleni, da cui è segnato e intossicato l'ambiente metropolitano milanese.

Con il volume Produrre e scambiare valore territoriale. Dalla città diffusa alla forma urbs et agri, da poco uscito per Alinea (pp. 270, euro 30), gli studiosi del Laboratorio di progettazione ecologica coordinati presso il Politecnico di Milano da Giorgio Ferraresi ricorda però come esistano - e siano praticabili - scenari alternativi all'insensato «modello Grandi Opere» e come, proprio nell'hinterland milanese, si stiano realizzando.

Gli studiosi, che fanno capo al programma territorialista di ricerca nazionale coordinato da Alberto Magnaghi, hanno realizzato il loro studio reinterpretando e arricchendo progetti e piani istituzionali, scientifici, sociali, prodotti negli anni scorsi per l'area meridionale - a prevalente vocazione agricola - del capoluogo lombardo. E lo scenario che prospettano per il Parco Agricolo Sud Milano di fatto «decostruisce e ricontestualizza» una idea che risale agli anni Sessanta, quando era in auge per le aree metropolitane «l'ideologia dei Piani Intercomunali» (i Pim) e il Parco Agricolo veniva considerato come lo strumento per bloccare «il declino del primario nella parte sud dell'area metropolitana».

Il ruolo delle fiumare

Oggi quell'idea viene riproposta con ambizioni che vanno oltre l'ambito della disciplina urbanistica e mirano a una innovata relazione tra agricoltura, territorio, ambiente e paesaggio. Lo scenario proposto dai territorialisti milanesi costituisce infatti la traduzione in termini compiuti e concreti del concetto di «sviluppo locale auto-sostenibile», proposto da Alberto Magnaghi. Non solo: quello che il Laboratorio propone è una «nuova estetica dell'abitare» nella quale dinamiche sociali e nuovi stili di vita si coniugano con regole territoriali riattualizzate - muovendo dai rapporti virtuosi che spesso nel passato si allacciavano nella comunità tra territorio ed economia, ambiente e società, allorché «ciascuna civiltà depositava sul territorio i suoi oggetti, ma sempre in coerenza, non in contrasto, con l'assetto ecologico e con il patrimonio culturale esistente». Un uso sapiente del territorio, di cui i paesaggi rurali conservano abbondanti tracce nei beni etnoantropologici dismessi appena qualche decennio fa.

Manlio Rossi Doria, antesignano di quei «pianificatori di contesto», cui appartengono i territorialisti, racconta per esempio del ruolo svolto dalle fiumare nei territori meridionali, «elementi di collegamento e cerniera tra l'osso e la polpa, i rilievi montani e le piane o le fasce costiere, su cui insistono comunità assai coese, sistemi dotati di forte organicità e coerenza interna, ad un tempo economici e ambientali, paesaggistici, sociali e territoriali». Oggi, all'uscita dalla modernità, il Parco Agricolo Sud Milano può giocare un ruolo analogo, fornendo a problemi drammaticamente attuali, nella disciplina come nella società, indicazioni utili per bloccare il consumo eccessivo di suolo, la proliferazione di costruzioni insensate, la distruzione dell'ambiente.

Ma il Laboratorio di progettazione ecologica (che oggi e domani al Politecnico di Milano organizza un seminario internazionale intitolato, come il volume, Produrre e scambiare valore territoriale) va oltre, e nello scenario del Parco agricolo «porta al governo, anzi all'autogoverno» i nuovi stili di vita, ipotizzando tra l'altro la nascita e lo sviluppo di inedite formazioni sociali attorno a valori e risorse presenti - possibili sponde solidali per «le moltitudini in dissolvenza nella società liquida». Con lo scenario di Parco Agricolo, spiega Ferraresi, «si avanza insomma una proposta di utopia concreta, e già operabile almeno su alcuni punti qualificanti e comunque radicata dentro esperienze sociali di cooperazione e su studi e progetti in corso, sebbene a Milano, non si sia ancora giunti, se non in casi isolati, a definire politiche pubbliche».

Filiere corte, ma flessibili

Nel proporre «il ruolo fondamentale del cibo, dei cicli ambientali e di una nuova agricoltura» per una pianificazione non settoriale, il lavoro del Laboratorio prova a rispondere al cruciale quesito su quale sia oggi il senso dell'uso del territorio. A differenza dei modelli immaginifici dettati da una «politica mediatica» che prevede la proliferazione di strutture quasi sempre inutili e dannose, gli studiosi del Politecnico propongono una funzione di valore territoriale, che ricomponga il paesaggio e sancisca un innovativo valore d'uso per lo spazio agricolo, non più legato (come era al tempo dei Pim) alla massimizzazione delle rese per la vendita, ma alla qualità della nuova domanda sociale - dalle richieste di consumatori ecologici, equi e collettivi (per esempio i gas, gruppi di acquisto solidale) alle esigenze di strutture particolari (negozi biologico/biodinamici o mercatini produttori/consumatori), alle «filiere corte» (cicli locali produzione-consumo).

Filiere, spiegano gli studiosi del gruppo di lavoro, che «si possono allargare, per favorire, per esempio, relazioni corto-lunghe socialmente virtuose, tra produzioni di qualità provenienti dai Sud e il consumo equo e solidale occidentale».

Se infatti il Parco è agricolo, lo scenario è ben più ampio, attraversa temi e discipline diverse e ridefinisce nell'ambito del territorio le relazioni «tra produzione, consumo, natura, cultura e società», in modo da fornire non solo un nuovo disegno, ma un senso forte del contesto per le comunità che abitano e abiteranno nell'area.

In questo modo si affronta una delle conseguenze più evidenti di una economia del territorio, qual è quella attuale, sempre più finanziaria e «virtuale», e alla produzione di bigness che la accompagna: lo stravolgimento delle intenzioni - anche le più intelligenti - delle recenti esperienze di governance urbana e territoriale, convinte di poter mediare tra grandi interessi e domanda del mercato e costrette a produrre spazi spesso piegati (e piagati) esclusivamente dai primi. Temi, questi, su cui si sofferma Pier Carlo Palermo nel recente volume I limiti del possibile. Governo del territorio e qualità dello sviluppo (Donzelli, pp. 188, euro 27 ).

Razionalità comunicativa

Più in generale, si tratta di assumere le difficoltà dei soggetti di governance e delle istituzioni politiche tout court, di fronte alle nuove questioni poste dalla crisi economica (alle quali si tende a rispondere riproponendo gli stessi meccanismi che l'hanno provocata - comprese le relazioni tra economia reale e finanziarizzazione) e ambientale (rispetto alla quale si avanzano soprattutto declaratorie). Su questo punto basta riprendere una posizione consolidata nel programma territorialista - ottimamente chiarita nel volume di Anna Marson, Archetipi di territorio (Alinea, pp. 286, euro 22) - che da tempo sottolinea come, per fruire di quei beni comuni che derivano dagli elementi fondamentali della nostra vita, sia necessario liberarsi una volta per tutte dalla «ubriacatura di mercato» che ha colpito fino a ieri anche vasti strati della sinistra.

Ma anche questo non basta, se non si coglie che, rispetto a simili problemi, l'innovazione, anche scientifica, può giungere solo da chi il territorio lo abita e lo «agisce», sia pure con la discontinuità dei «nomadi», quali oggi siamo un po' tutti. Come scrive Giorgio Ferraresi in Produrre e scambiare valore territoriale, «nascono nuove culture, un filone di pensiero e di modalità e finalità dell'azione radicalmente altro rispetto a quella ragione strumentale e alla sua potenza tecnologica che si è appropriata della modernità e che ha sottomesso o emarginato ogni altra forma di ragione e comportamento, nutrendo di sé il dominio dell'urbano e il degrado del territorio». In luogo di contesti che producono merci da vendere o spazio da privatizzare (e magari quotare in borsa), se ne propone una profonda, concreta, utilità virtuosa: «il porsi della questione ambientale nella trasformazione del territorio pone al centro i mondi di vita, la forma della razionalità comunicativa che li governa e la ricerca di senso del mondo e delle azioni. I suoi codici di azione e comportamento sono basati sulla cura dell'ambiente e nelle relazioni primarie e su esperienza, sapienza e responsabilità del vivere il presente quotidiano e il futuro, del generare».

Influenze anglosassoni

Lo scenario finale prefigurato dal lavoro del Laboratorio di progettazione ecologica oppone ai disagi e ai disastri della città diffusa una nuova figura di forma urbis et agri, che prende spunto anche dalla tradizione anglosassone del town and country planning e prospetta un paesaggio di qualità in un ambiente ricostituito. E soprattutto stili di vita legati a esperienze innovative che con le loro domande di un uso attento dei beni materiali o di cura dei luoghi, promettono una nuova qualità del vivere e dell'abitare. Nella coniugazione virtuosa e innovativa di territorio urbano e agricoltura, ambiente e cultura, paesaggio e società, ipotizzata dai territorialisti milanesi, lo slogan dell'Expo 2015, «Nutrire il Pianeta, produrre energia per la vita», svuotato di senso dalle scelte che l'operazione comporta, può ritrovare una valenza concreta.

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