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Franco Cordero
Telekom, o la bagarre che giova al Cavaliere
10 Aprile 2004
I tempi del cavalier B.
Franco Cordero racconta, nel suo modo magistrale, il teatrino organizzato da B. sul caso Telekom. Su Repubblica del 25 settembre 2003.

Se fosse esistito qualche dubbio su origini e stile dell’uomo al governo, lo scandalo Telekom lo dissiperebbe. La storia comincia nel giugno 1997, quando Telecom Italia, il cui 61% appartiene ancora allo Stato, acquista il 29% dall’omonima serba, sborsando 878 miliardi: 5 anni dopo glielo rivende e ne incassa 378, essendo ormai una società a capitale privato (la residua quota pubblica ammonta al 3.9%). Nel frattempo lì era scoppiato l’inferno: Kosovo, intervento militare Usa e Nato, collasso serbo; e i manager non sono Nostradamus. Affari simili attirano gli squali. Dal febbraio 2001 la procura torinese indaga sui retroscena. L’inchiesta parlamentare parte nel maggio 2002. Obiettivo, squalificare gli avversari evocando miliardi corsi sotto banco: intona il canto un tale dal cospicuo record penale ma è roba tale da non essere spendibile nemmeno nel pubblico d’11 anni prediletto dai comunicatori Mediaset; l’impresentabile sparisce; e faute de mieux, ecco Igor Marini, al quale non manca il look forzaitaliota. Come testimone gentiluomo, vale l’altro. Mercoledì 8 maggio innesca un diversivo dal dibattimento Sme dove Sua Signoria guadagna tempo aspettando l’ignobile lodo: arrestato sul suolo elvetico, dove guidava i commissari alla ricerca delle prove, abita ora nelle Vallette, prigione subalpina munitissima; lo descrivevano formidabile macchina mnemonica, senonché cambia versione ogni volta, né esistono riscontri. Anche chi non abbia l’acume induttivo d’Auguste Dupin (proto-detective inventato da E.A. Poe) vede in che brago affondino gli onorevoli inquirenti. Infine indica tre destinatari dei soldi neri rifluiti dalla Serbia: l’allora presidente del Consiglio, nel quale B. ha un pericoloso antagonista elettorale, il ministro degli Esteri, un sottosegretario; nella seduta seguente ne nomina ancora tre, uno dei quali sedeva all’opposizione adesso padrona (frange ex-democristiane fluttuano). Nemmeno una sillaba sul ministro del Tesoro, attuale capo dello Stato, ma a tempo debito lo evoca quale commensale del correo Fabrizio Paoletti, da cui afferma d’averlo saputo, e costui cade dalle nuvole.

L’allora sottosegretario agli esteri P.F., ora segretario Ds, chiama sulla scena «il burattinaio» seduto nel Palazzo Chigi. I soliti replicanti fingono d’inorridire, come quando l’innocuo mattoide Robert-François Damiens punge con un coltellino Luigi XV, le "Bien-aimé". L’amatissimo Sire d’Arcore scaglia fulmini. Peccato che non vigano più le pene d’allora, essendosi ingentiliti i costumi nei 256 anni dallo squartamento su place de Grève. Querela o causa civile? Lunedì 15 settembre il dado è tratto: tutt’e due, querela a Bologna, citazione davanti al tribunale romano; l’offeso chiede 15 milioni d’euro. P.F. rinuncia all’immunità parlamentare e lo sfida ad analogo passo nel giudizio milanese. È materia indisponibile, avvertono gli zelanti. Non confondiamo cose diverse sotto lo stesso nome: "opinioni" e "voti" inquadrabili nella funzione parlamentare sono atti penalmente irreprensibili ab ovo, lo chieda o no l’immune (art. 68 Cost.); è privilegio personale disponibilissimo, invece, la sospensione dei giudizi che B. s’è affatturata.

Ma il caso de quo evade dall’ art. 68: dire «Mussolini manda dei sicari a Matteotti» o "De Gasperi chiama bombe americane su Roma" (l’aveva scritto Guareschi) o «Igor Marini lavora pro B.», non è dialettica camerale; sono discorsi virtuosi o diffamatori, secondo i contesti, chiunque parli, sieda o no in Parlamento; a dati presupposti cadono sotto una scriminante arguibile analogicamente, perché l’interesse collettivo impone critiche anche sanguinose; ipotesi da non confondere con l’exceptio veritatis (prova l’asserto e sarai assolto: art. 596 c.p.). Ora, «burattinaio» è metafora abbastanza ampia da includere due casi estremi e tanti intermedi: N imbecca P affinché compia gesti o dica cose a comando; o era P a muoversi; rende servizi spontanei, sicuro che N, ricchissimo, strapotente, largo pagatore, non lesini sul compenso; fosse roba pulita, la definiremmo gestione d’affari (artt. 2028-32 c.c.). I tribunali diranno quale sia l’ipotesi più probabile, considerati precedenti, persone, interessi. La lunga grancassa mediatica sulle pseudo-rivelazioni lascia pochi dubbi.

I soliti plananti sulla mischia raccomandano toni bassi. Qualcuno ventila simmetrie, equiparando il narratore detenuto alla testimone le cui parole avevano innescato i procedimenti Imi-Sir, Lodo Mondadori, Sme. Chiaro l’invito a rimuovere i rispettivi episodi attraverso una doppia amnesia: ormai B. sta quasi fuori, salvato da immunità e prescrizione, estendere le quali ai correi è affare tecnico; basta liquidare l’antiberlusconismo rabbioso, affinché rifioriscano i dialoghi sulle riforme, cominciando dalla giustizia (carriere separate, ecc.). Definiamolo discorso tartufesco, appeso a una falsa simmetria, falsissima, più falsa delle finestre dipinte: i rispettivi detti non s’equivalgono affatto; uno affabula; i fatti svelati dall’altra conducono a reperti (carte bancarie estere) talmente incriminanti che, nel goffo tentativo d’escluderli, squadre d’onorevoli operai riscrivono articoli sulle rogatorie in termini addirittura manicomiali (alludo all’art. 729, 1-ter); e un tribunale emette dure condanne.

Nella seconda decade d’agosto sopravviene la svolta tattica, necessaria perché l’indagine torinese liquiderà le favole d’Igor: che débâcle; erano l’amo d’una truffa telematica i finti 120 milioni $ della pretesa tangente serba nella banca monegasca Paribas; lo manovravano pirati romani specialisti dell’assalto informatico alle banche (qui, 22 settembre). Archiviate le tangenti, i berluscones deplorano l’affare rovinoso a profitto del sanguinario dittatore serbo, presupponendo che i ministri siano obbligati a vedere nel futuro (tra l’acquisto Telekom e l’inferno kosovaro passano 3 anni): colpa diretta, se lo sapevano; o controlli omessi, quindi inescusabile negligenza. Ogni tanto persone variamente situate girano in tondo come nel presepio meccanico: forse le muove un filo; militanti estremisti, pontieri melliflui, oracoli finti neutrali, salmodiano quel dilemma nei rispettivi stili. L’ex-speaker forzaitaliota, ora coordinatore, trae una conclusione categorica: devono dimettersi; e siccome gli attuali titolari d’uffici sono due, i bersagli saltano all’occhio; uno è il capo dello Stato; l’altro siede nella Commissione europea. Poi nega l’allusione al Quirinale, ma nel mondo blu le parole significano mille cose, anche opposte: non esistono parti fisse; era colomba, diventa guerrigliero o l’inverso. Unica costante l’interesse padronale, da servire in ginocchio e con quanto zelo lo servono. Il signore delle lanterne magiche lavora nel fluido, noncurante dei fatti: 2+2=5 o forse 7 o lui solo sa quanto; aveva vinto spaventando gli elettori con lo spettro comunista (anno Domini 1994, nemmeno fossimo regrediti al 1948); dopo 8 anni ripete l’en plein spacciando illusioni; gli avversari sgomenti credevano che avesse catturato almeno 7 italiani su 10.

L’ugola ufficiale spendeva parole mirate chiedendo le dimissioni dei ministri d’allora: uno, ripetiamolo, è l’antagonista probabilmente vittorioso nella futura sfida elettorale; e se l’altro scendesse dal Colle, vi salirebbe Berlusco felix. Le allusioni intimidatorie puntano anche al futuro imminente: aspettano il voto due testi spudoratamente viziosi, su tv e conflitto d’interessi; restituendoli alle Camere con un messaggio dove spieghi perché non li promulga, il capo dello Stato lo metterebbe spalle al muro; rivotarli tali e quali significa togliersi la maschera, gesto prematuro. Incombono mesi caldi. Perciò B. avvelena l’atmosfera, con tale volgarità da attirarsi gli ammonimenti dei vescovi, 16 settembre, nonostante i favori alle scuole private. Anima d’eversore e padrone dell’ordigno mediatico, ha tutto da guadagnare nella bagarre.

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