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Vittori Taviani
Taviani: «A Regina Coeli ho visto l’orrore ma farci un hotel sarebbe un’offesa»
30 Maggio 2016
Spazio pubblico
«Il

«Il regista vincitore con il fratello dell’Orso d’Oro con un docu-film ambientato in carcere parla del progetto di vendere la prigione romana: “Viverci è impossibile però farne un uso commerciale rappresenterebbe un insulto a chi lì dentro ha sofferto tanto”» Intervista diArianna Finos. La Repubblica, 30 maggio 2016 con postilla

Togliete le carceri dai centri storici, ma non trasformatele in alberghi e centri commerciali». Vittorio ePaolo Taviani, registi, sono in sintonia con il piano del governo, anticipato ieri da Repubblica, che prevede l’abbandono delle strutture storiche di Regina Coeli, San Vittore e Poggioreale a favore di nuovi penitenziari nelle periferie di Roma, Milano e Napoli, ma a patto che «gli spazi siano destinati al servizio pubblico dei cittadini». Da sempre attivi nelle prigioni, i Taviani hanno vinto l’Orso d’oro alla Berlinale nel 2012 con Cesare deve morire, docu-film sulla messa in scena del Giulio Cesare di Shakespeare da parte dei detenuti di Rebibbia.

Vittorio, 86 anni, si è appena ripreso dall’incidente dello scorso ottobre, quando fu investito a un’auto in piazza Venezia. E dice: «Per noi di famiglia, parlo anche per mio fratello Paolo, e per il quartiere il carcere di Regina Coeli fa parte dell’orizzonte dei nostri sentimenti. Da cinquant’anni anni conviviamo con quello che ci arriva da là.

Le famose grida romantiche dall’alto del Gianicolo e dalle sbarre, messaggi d’amore e di sostegno. Può capitare, e questo è terribile, che di notte improvvisamente arrivi una voce singola, disperata: “Qui non posso vivere”. Quando c’è una partita dell’Italia, non abbiamo bisogno di accendere la televisione. Se va bene o va male lo sentiamo dalle grida di orrore o gioia che arrivano da lì dentro».

Diverse sono le condizioni di chi è recluso.
«Lo sappiamo bene. Con “Cesare…” io e Paolo abbiamo vissuto un’esperienza a Rebibbia, che è un carcere buono ma con problemi di sovraffollamento. Ci capitava, prima o durante le riprese, di camminare per questi lunghi corridoi e vedere attraverso le porte semiaperte uomini vecchi e giovani distesi sui letti a castello. Immersi, per ore, in un silenzio di morte. Uno di loro mi disse: “Non mi deve chiamare detenuto, mi chiami il guardatore di soffitti”. In questo senso, in quei luoghi, c’è un nulla che distrugge l’energia della vita. Regina Coeli è molto peggio. Perché almeno il carcere di Rebibbia è stato costruito in modo razionale, nella prigione di Trastevere ho visto celle fatiscenti.

Credo che sia venuto il momento che Regina Coeli scompaia, accompagnato, lo dico, dal dolore di tutti noi che viviamo in questo quartiere. È un pezzo della storia di Roma che si fonde con i rumori della città che gli è intorno. Si perderà tutto, ma ben venga se avverrà a favore di un luogo in campagna, con costruzioni innovative progettate da architetti, sociologi e psicologi affinché si trovi il modo per trasformare la pena in un cammino di riscatto. Vivere là dentro è una condizione inconcepibile per un essere umano. Allora, addio Regina Coeli».

Tra le conseguenze più gravi dell’inadeguatezza delle strutture c’è l’immobilismo dei detenuti.
«Quando i nostri carcerati, attori, uscivano dalle loro celle e venivano per alcune ore da noi, dicevano: “Oggi siamo liberi, ci sentiamo persone. Appena torniamo su, perdiamo l’individualità degli uomini, l’energia della vita”. Ci ha sconvolto il loro dover vivere senza un progetto. Alcuni meravigliosi disperati studiavano, prendevano lauree e diplomi, agganciandosi a qualcosa da costruire».

Con i detenuti del vostro film avete mantenuto un contatto?
«Con i nostri attori abbiamo stabilito un rapporto che oggi, quattro anni dopo il film, è d’amore. Li sento fratelli, vorrei baciarli. Lo scorso marzo ho partecipato a una gara di retorica. Ma questo non cancella l’odio per quel che hanno fatto. Io e Paolo rimaniamo in questa contraddizione.

Ci hanno raccontato cose terribili: “Io ho tre orfani sulla coscienza”, “io ne ho ammazzati venti”. Prima li rifiuti, poi lavorando con loro li vedi tirar fuori il dolore che hanno dentro, senza pudori. Uno ha scritto alla moglie: “Vieni a vedermi quando recito perché mentre recito posso perdonarmi”. Il ricordo più bello è la foto che ciascuno di loro ha voluto fare, al centro, tra me e Paolo, con l’Orso d’oro in mano».

Il carcere è anche luogo di reclutamento per l’estremismo jihadista.

«Questo terribile, spaventoso fanatismo islamico trova proseliti tra chi è in carcere. Se fossi un detenuto penserei: “Sì, ho questa colpa, ma è più grave la violenza che mi fa questo Stato, la tortura che mi infligge giorno e notte”. E qualcuno pensa che sia giusto ribellarsi. E Il carcere diventa scuola di sopraffazione. Ha presente che significa essere stipato in una camerata che dovrebbe essere per tre e invece ci si sta in sette? Un costringimento della mente e del corpo».

Come dovrebbero essere utilizzati gli edifici storici?

«Quando arrivammo qui, mezzo secolo fa, ci dissero che il carcere sarebbe diventato una grande biblioteca nazionale. Una biblioteca, un museo. Queste sono le trasformazioni possibili per una struttura nel cuore della città. Non può diventare un grand hotel, un ipermercato. La nuova destinazione deve diventare un omaggio a chi in quel carcere molto ha sofferto. Un destino commerciale per Regina Coeli mi farebbe orrore e il mio quartiere protesterebbe con tutte le forze».

postilla

Vittorio Taviani ha perfettamente ragione nel merito. Ma si illude se pensa che chi ha avuto la grande idea di "valorizzare" le carceri nei centri storici sia ansioso di individuare e promuovere l'utilizzazione più adeguata alle qualità intrinseche (culturali, artistiche, storiche) di quei manufatti. Così come si illudono quanti credono che padroni del governo in carica e Cassa depositi e prestiti abbiano come obiettivo il miglioramento delle condizioni degli infelici incarcerati. L'unico obiettivo è poter disporre di tanti metri cubi da impiegare un una poderosa speculazione immobiliare.

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