Una efficace ricomposizione delle principali documentate denunce sui motivi dei disastri, del responsabile della Protezione Civile e delle associazioni ambientaliste. Corriere della Sera, 21 novembre 2013
ROMA — «Centri funzionali decentrati»: con questo nome astruso si chiamano le strutture regionali che dovrebbero essere i pilastri del sistema di allerta in caso di alluvioni. Ieri si è scoperto che nella Sardegna funestata dal ciclone Cleopatra quel «Centro» non era attivo. Anche se non è stata proprio una scoperta. Si sapeva dal 9 ottobre scorso, quando il capo della Protezione civile Franco Gabrielli aveva denunciato, in un’audizione alla Camera dei deputati, che a dieci anni di distanza dal provvedimento che le ha istituite, il 24 febbraio 2004, soltanto in dieci Regioni quelle strutture funzionano a pieno regime. Quali sono? «Piemonte, Liguria, Valle D’Aosta, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, Campania e le Province autonome di Trento e Bolzano. Le Regioni non ancora attive sono sei: Friuli Venezia Giulia, Abruzzo, Basilicata, Puglia, Sicilia e Sardegna. Umbria, Lazio, Molise e Calabria hanno invece attiva solo la parte idro e hanno il supporto del Dipartimento per la parte meteo». Parole del medesimo Gabrielli.
Il Friuli Venezia Giulia potrà rivendicare di avere una struttura regionale di Protezione civile assolutamente eccellente, mentre la Puglia ha già rispedito l’accusa al mittente, sostenendo che la colpa dei ritardi è tutta dell’apparato nazionale. Replica non incassata a sua volta da Gabrielli, che ha invitato le autorità pugliesi a non girare la frittata. Episodio, a prescindere dalle ragioni di ciascuno, che fa ben capire come il nostro federalismo pasticcione non abbia risparmiato nemmeno la Protezione civile: vittima di quella che il suo capo ha bollato come «una Babele di competenze» capace di frenare la prevenzione dei disastri ambientali. «Sul dissesto idrogeologico hanno competenze Autorità di bacino, Province, Regioni e Comuni», ha spiegato Gabrielli, aggiungendo che davanti a un alluvione come quella del 1966 a Firenze saremmo indifesi come allora.
Si è forse dimenticato qualcuno, il capo della Protezione civile: i consorzi di bonifica, per esempio. Ma il quadro è ugualmente disarmante. Tanto più che in questa Babele chi ha il compito di prevenire i dissesti fa esattamente il contrario. Dal febbraio del 2004 a oggi, quando sono stati formalmente istituiti i «Centri funzionali», i Comuni e le Regioni hanno continuato nell’opera di selvaggio e scriteriato consumo di suolo, ponendo le basi per future catastrofi più gravi. Se i cambiamenti climatici producono con sempre maggiore frequenza eventi estremi, i loro effetti «sono stati esacerbati», denuncia anche Gabrielli, «dagli ormai ben noti caratteri di elevata antropizzazione del territorio, dall’aumento del consumo di suolo alla conseguente notevole impermeabilizzazione delle superfici». Un allarme simile a quello lanciato nel rapporto 2012 perfino dall’Istat, che mai si era spinto prima di allora in valutazioni tanto critiche sulle questioni ambientali. E qui l’abusivismo c’entra ben poco. C’entrano invece i piani regolatori sfornati con leggerezza dai Comuni e vidimati con altrettanta leggerezza dalle Regioni. C’entrano programmi territoriali e piani paesistici regionali spesso insensati. C’entrano le sconsiderate variazioni di destinazione d’uso delle superfici che hanno fatto perdere all’Italia negli ultimi quarant’anni qualcosa come 5 milioni di ettari di terreni agricoli. E qui le responsabilità sono tutte delle classi dirigenti locali, spesso coinvolte nel torbido intreccio di interessi affaristici e speculativi.
Dice una indagine di Legambiente che «negli ultimi quindici anni il consumo di suolo è cresciuto in modo abnorme e incontrollato», con il risultato che nel 2011 il 7,6% del territorio italiano non era più naturale: parliamo di una superficie superiore a quella dell’intera Toscana. Si tratta di una percentuale nettamente superiore a quella della media europea (4,3%) e della stessa Germania (6,8%), Paese pressoché interamente pianeggiante (mentre un terzo del territorio italiano è montuoso) e con una densità abitativa superiore di circa il 15 per cento alla nostra.
Ancora. Nel 2007 a Napoli e Milano il 62% del suolo comunale era impermeabilizzato. A Roma, nei 15 anni fra il 1993 e il 2008, ben 4.800 ettari di terreno agricolo sono stati resi edificabili e occupati da abitazioni inutili. Nel 2009 si contavano nella capitale 245.142 abitazioni vuote: record nazionale assoluto. Ma al secondo posto c’era Cosenza con 165.398 case vuote, numero superiore di quasi due volte e mezzo a quello degli abitanti della città.
E mentre si prosegue a tirare su dappertutto palazzine e centri commerciali al ritmo (stime del ministero dell’Agricoltura) di cento ettari al giorno, un anno fa il Dipartimento della Protezione civile informava che ben quindici Regioni non avevano presentato l’elenco dei Comuni con i piani d’emergenza aggiornati: questo in un Paese come l’Italia che ha ben 6.600 enti locali su poco più di 8 mila sui quali incombe il rischio idrogeologico. Per non parlare poi delle scaramucce fra il centro e la periferia che vanno avanti dal 2001, anche a colpi di ricorsi alla Corte costituzionale.
Al verificarsi di tragedie come quelle di Sardegna 2013, Maremma 2012 e Liguria e Toscana 2011, contribuisce certo la cronica mancanza di denari da destinare alla prevenzione. Trenta milioni l’anno, quanti ne sono stanziati dalla legge di stabilità, in effetti sono pochini per un Paese che avrebbe bisogno di un miliardo e mezzo l’anno per almeno un decennio. Ma siamo sicuri che la carenza di risorse non sia in qualche caso una scusa per pietose autoassoluzioni? Ha fatto scalpore in Liguria una denuncia del gruppo regionale del Popolo della Libertà, spalleggiato dall’allora capogruppo del partito all’europarlamento, l’attuale ministro della Difesa Mario Mauro, secondo cui appena il 7 per cento dei fondi europei venivano impiegati per prevenire il dissesto, in una delle Regioni più a rischio. Argomentazioni «pretestuose», per l’assessore regionale Enzo Guccinelli.
E ricordate invece la tragedia di Messina del 2009, quando un alluvione provocò la morte di 37 persone? Mentre infuriavano «pretestuose» polemiche la Regione siciliana, punta sul vivo, diramò un comunicato nel quale sosteneva che in dieci anni aveva speso 200 milioni di euro allo scopo di prevenire il dissesto idrogeologico nel solo messinese. Ma qualcuno dei solerti dirigenti regionali si era forse accorto delle palazzine spuntate come funghi nell’alveo dei torrenti?