“I popoli edificano i propri campi come le proprie città” scrive Carlo Cattaneo a conclusione del suo studio sul territorio della Lombardia. Il rapporto tra suolo e società è strettissimo, e ci sono momenti della storia nei quali le civiltà si impegnano in opere immani di miglioramento del suolo e del territorio, nei quali si producono nuovi paesaggi. Nel nostro Paese, dalla Liguria alla penisola Sorrentina-Amalfitana al promontorio del Gargano, le popolazioni costiere hanno edificato nei secoli sistemi di terrazzamenti estesi per decine di migliaia di ettari, mentre la sistemazione idraulica delle pianure tirreniche è il frutto di un progetto di lunga durata, dai sovrani illuminati del ‘700 sino alla bonifica integrale di Arrigo Serpieri degli anni ’30 dello scorso secolo.
Il rapporto tra suolo e società, si diceva, è strettissimo, nelle fasi di sviluppo come in quelle di crisi. Il Dust Bowl raccontato da Steinbeck in Furore, l’erosione eolica dei suoli e le tempeste di polvere che condussero alla fame gli agricoltori delle pianure centrali negli anni della Grande Depressione, è insieme il prodotto di una crisi ambientale, economica, sociale ed umana.
La risposta di Roosevelt, all’inizio del suo primo mandato, fu l’istituzione del Soil Erosion Service (1933), il servizio federale che assumerà poi nel ‘35, con la promulgazione del Soil Conservation Act, la denominazione definitiva di Soil Conservation Service. Si tratta di uno degli atti fondativi del New Deal, con l’impiego di manodopera inoccupata in grandi interventi pubblici di forestazione e sistemazione idraulica negli oltre 3.000 Soil Conservation District. La tradizione statunitense di intervento pubblico per la conservazione dei suoli e delle terre è poi proseguita sino ai giorni nostri, con la Soil Bank degli anni ’60, il Soil and Water Conservation Act degli anni ’70, il Farm Bill degli anni ’80.
A settant’anni di distanza, è nel solco di simili esperienze che la proposta di direttiva comunitaria che istituisce un quadro per la protezione del suolo intenderebbe in qualche modo porsi.
La direttiva si basa sull’identificazione del suolo come risorsa multifunzionale e non riproducibile, dal cui stato di salute dipende l’equilibrio dei bacini idrografici, degli ecosistemi e dei paesaggi europei. Essa obbliga gli Stati membri a identificare le aree a rischio di degradazione dei suoli, e a definire per ciascuna di queste programmi d’azione per contrastare i processi di erosione, declino dell’humus, salinizzazione, compattazione, dissesto (landslides).
Un approccio diverso è indicato per la contaminazione dei suoli, con l’obbligo di predisporre inventari nazionali dei siti contaminati e di definire strategie nazionali di bonifica.
Francamente debole, come già sottolineato nel commento di Eddyburg, l’approccio della direttiva nei confronti del sealing, l’impermeabilizzazione dei suoli conseguente alla trasformazione urbana. Se pure nelle considerazioni preliminari è scritto che “… il fenomeno dell’impermeabilizzazione sta diventando sempre più intenso nella Comunità a seguito della proliferazione urbana” e che “occorrono pertanto misure adeguate per contenere questo fenomeno, ad esempio il recupero di siti abbandonati e contaminati (brownfield) che limiti lo sfruttamento di aree verdi”, l’art. 5 della direttiva non va oltre un generico invito agli stati membri a prendere misure appropriate di contrasto.
Eppure sono proprio i recenti report dell’Agenzia Europea per l’Ambiente a identificare nell’urbanizzazione fuori controllo il rischio principale di degrado del territorio rurale e dello spazio naturale europeo, a causa del consumo di suolo e della frammentazione dei paesaggi e degli habitat che essa comporta. Nel decennio 1990-2000 sono stati urbanizzati in Europa poco più di un milione di ettari, pari al 2,9% del territorio comunitario: le città europee sono cresciute del 6,5%, un tasso di crescita che comporterebbe il loro raddoppio in poco più di un secolo, una prospettiva inquietante nel già fosco scenario di global change.
Il problema, come è noto, è istituzionale: il Trattato istitutivo dell’Unione assegna infatti alla Commissione competenze in materia ambientale, ma non nei settori della pianificazione e governo del territorio. Ed infatti, il documento comunitario che più direttamente si interessa di assetto territoriale, lo Schema di Sviluppo Spaziale Europeo coordinato da Andreas Faludi, è stato approvato a Potsdam nel 1999 a livello di Consiglio informale dei ministri. All’interno di esso, come si ricorderà, viene chiaramente delineata una strategia di contenimento dei consumi di suolo basata sul riuso delle aree urbane esistenti e sul contrasto della dispersione insediativa.
Naturalmente, il problema delle competenze non deve essere sfuggito al gruppo di esperti che ha redatto la nuova direttiva sulla protezione del suolo se, nel rapporto tecnico-scientifico che la accompagna, troviamo scritto che “come prima cosa, si pone l’esigenza di una Convenzione europea sulla restrizione dei consumi di suolo. Essa dovrà affermare con chiarezza che il consumo di suolo è un processo non desiderabile. La diminuzione dei consumi di suolo può essere ottenuta attraverso misure tecniche, socio-economiche, ed anche fiscali”. Senza dimenticare, ci sentiremmo di aggiungere, quelle politico-istituzionali.
Insomma, è necessario continuare a lavorare perché “il suolo si ribellerà a chi violerà i suoi diritti”, come ha scritto ancora Cattaneo. L’ammonimento era per noi, suoi compatrioti, ma funziona bene anche a scala globale.
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