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Sull’armata straniera a Vicenza
17 Gennaio 2007
Articoli del 2007
L’incredibile (per la sostanza e per la forma) decisione del governo italiano sulla base USA a Vicenza, nelle informazioni e nei commenti di Marco Revelli, Matteo Bartocci, Oscar Mancini,da il manifesto del 17 gennaio 2007

L'offesa di Vicenza

Marco Revelli

Non necessariamente i governi si giudicano dai grandi gesti di coraggio. Ma dai piccoli atti di viltà sì. E quello di Vicenza è un mediocre, umiliante - e anche gratuito - atto di viltà.

Assistiamo ormai quotidianamente allo spettacolo grottesco che un presidente americano allo sbando, abbandonato dai suoi stessi elettori, infligge al mondo intero. Ai sacrifici umani di Baghdad. Alle mattanze somale, se possibile ancor più scandalose nel loro mettere in scena, sul palcoscenico globale, l'immagine della potenza dei primi - dei più ricchi, dei più forti - scaricata ad annientare gli ultimi, i più poveri della terra, i più invisibili, quelli delle capanne tra le paludi. Tutto il mondo può vedere ormai, ad occhio nudo, il disastro morale, umano, politico di quella pratica. E non è questione di anti-americanismo o di filo-americanismo. Si tratta qui dell'aver conservato o meno un brandello di capacità di giudizio. O anche semplicemente un residuo d'istinto di conservazione.

Abbiamo, dall'altra parte, un territorio - come quello vicentino - che si difende. Che da mesi si mobilita e resiste. Non per ostilità politica. Per tutelare la propria quotidianità. Non c'era nessuna necessità di ruere in servitium, alla velocità del fulmine. E di prostrarsi in ginocchio dal potente alleato col dono in mano, solo perché dall'altra parte dello schieramento politico qualcuno ha pronunciato la parola magica e tanto temuta - «anti-americanismo» -, e ha richiamato agli impegni (da lui, dal «suo» governo) assunti. «I patti vanno rispettati», sussurra il cavaliere disarcionato. Ma quali patti? Quelli assunti dal vecchio governo con l'amico George? O quelli stipulati dall'Unione con i propri elettori, quando servivano per vincere? O, ancora, quelli che dovrebbero legare un governo ai propri cittadini in un rapporto di responsabilità e di fiducia? Perché mai il «patto» con Washington dovrebbe valere di più di quello con gli elettori di Vicenza, abbandonati da Prodi alla loro «questione urbanistica»? In nome di quale «Ragion politica», umiliarli e frustrarli, ostentando questa incapacità e indisponibilità all'ascolto?

C'è, in questo paese, un tessuto civile che ancora, nonostante tutto, resiste, vuole crederci, si indigna e vorrebbe partecipare. E' ciò che resta delle grandi mobilitazioni di quattro anni fa. Il residuo solido della «seconda potenza mondiale» che aveva tentato di inceppare la macchina bellica globale. E' l'Italia che gli oligarchi di Caserta, chiusi nella propria reggia, si ostinano a non vedere. Né ascoltare. Sarebbe una risorsa non solo per una sinistra che volesse degnarla di uno sguardo, ma per la comatosa democrazia post-contemporanea. Ma sta al limite. Sente crescere dentro di sé frustrazione e disprezzo, di fronte all'impenetrabilità del «politico».

Ancora poco e ogni comunicazione verrà interrotta. Ci si guarderà, esplicitamente, come «nemici» tra chi sta dentro la reggia e i suoi codici lobbistici e chi sta nella vita, senza mezzi per difenderla. Perché aggiungere alla distanza abissale costruita con ostinata sicumera, anche la derisione?

Ci si conquisterà, forse, una critica in meno sul Corriere della sera. Ma si perderà, con certezza, un bel pezzo di futuro. Prodi benedice la base Usa

Via libera del premier alla cessione dell'aeroporto civile Dal Molin

Matteo Bartocci

«Sto per comunicare all'ambasciatore americano che il governo italiano non si oppone alla decisione presa dal governo precedente e dal comune di Vicenza a che venga ampliata la base militare americana». Romano Prodi, incredibilmente, derubrica a questione «urbanistica» la scelta tutta politica sulla mega-base dei marines di Vicenza (600mila metri cubi di cemento a un km dal centro cittadino): «Come sapete il mio governo si era impegnato a seguire il parere della comunità locale - dice il premier ai giornalisti che lo seguono a Bucarest - e quindi non abbiamo ragione di opporci visto che il problema non è di natura politica ma urbanistica e amministrativa».

L'accelerazione del Professore sconcerta le sinistre pacifiste e gela i Ds, che soltanto ieri sera con Piero Fassino a Porta a porta si erano espressi a favore del referendum con la popolazione. Non è un caso che per la Quercia sia solo Luciano Violante a difendere pubblicamente il Professore.

Il sì di Romano Prodi ovviamente fa compiacere gli Stati uniti. L'ambasciatore americano a Roma Ronald Spogli commenta a caldo i flash di agenzia con le parole del premier: «Oggi le relazioni tra Italia e Usa registrano un passo avanti». Gli americani non hanno accettato soluzioni diverse da quella di Vicenza. Nonostante lo stesso Prodi riveli che il governo aveva proposto «soluzioni alternative». «Una vasta area vicino ad Aviano», precisa Massimo D'Alema a Ballarò. In quanto al suo primo incontro alla Casa bianca con il presidente Bush Prodi spiega che, al momento, «non è previsto», che «avverrà al momento opportuno» e che comunque con gli Usa «non c'è nessun problema».

Oliviero Diliberto, segretario Pdci, è tra i primi a dirsi «deluso» dalla scelta prodiana. E poco dopo anche Prc e Verdi reagiscono compatti: «Tanto più se è materia locale allora bisogna ascoltare i cittadini con il referendum», dice Giovanni Russo Spena. Anche Franco Giordano, segretario Prc, non nasconde il suo disaccordo con Prodi: «Si apra il confronto. Il Prc sta con il popolo di Vicenza e con quello della pace». Oggi alle 11 i parlamentari veneti dell'Unione incontreranno a palazzo Chigi Enrico Letta. «Non finisce qui - giura Titti Valpiana del Prc - vedremo come faranno a portare avanti i cantieri».

Il senso del blitz del Professore, a quanto pare annunciato telefonicamente ai segretari dei vari partiti, è però ancora un mistero. Di buon mattino a Bucarest infatti il Professore era parso ben più attendista: «Non è il caso che la decisione venga annunciata qui. Lo faremo in Italia». Detto e subito contraddetto con un'apposita conferenza stampa convocata a sorpresa poche ore dopo. Secondo il premier il governo italiano non avrebbe avuto nessun fondamento giuridico per dire no agli Stati Uniti dopo che il comune di Vicenza ha dato il suo via libera al progetto. Ipotesi come minimo balzana, come se io sindaci potessero decidere a piacimento sulle basi militari di paesi stranieri.

Il pressing Usa e gli auspici alla collaborazione transatlantica che il presidente della Repubblica gli ha espresso personalmente l'altroieri evidentemente hanno convinto il premier a rompere gli indugi. Qualcuno però avanza speculazioni più «politiche» dietro il decisionismo del Professore. L'ennesimo intervento di Giuliano Amato, che si muove ormai quasi come il premier ombra garante di un certo equilibrio centrista e filoatlantico, ha innervosito Prodi, che si sente assediato da tutte le parti. L'occasione di dare un altolà al presunto «ticket» Fassino-Giordano e al protagonismo internazionale di D'Alema forse ha fatto il resto. Motivi poco limpidi sia nel merito che nel metodo.

«Prodi attento, rischi un'altra Val di Susa»

Oscar Mancini

«Noi non ci arrendiamo. Prodi stia attento: potrebbe esplodere un'altra val di Susa. Se si mette contro la volontà popolare, il governo avrà una caduta verticale di credibilità». Non fa sconti il segretario della Cgil vicentina, Oscar Mancini. Chiaramente deluso, come del resto la città.

Che fare adesso che c'è il via libera?

La Cgil chiede un incontro immediato al presidente del consiglio, unitamente ai comitati dei cittadini. Vicenza si aspettava una bocciatura netta di questo scellerato progetto. Il governo ha invece deluso le aspettative della stragrande maggioranza dei vicentini che hanno detto no al Dal Molin. Si tratta di un atto gravissimo: ma in Italia comanda ancora Berlusconi? E poi non è coerente con la nuova e apprezzata politica estera di questo governo.

In che senso?

Il governo ha fatto scelte molto apprezzate e condivise. E ora non può contraddirle subendo il diktat americano. La questione Dal Molin è complessa e va analizzata nel suo contesto. C'è un contesto ambientale su cui perfino i sostenitori del sì ormai sono d'accordo: il Dal Molin è il luogo meno adatto per la nuova base. C'è poi un contesto sociale, perché questa è una città già pesantemente militarizzata. E non è vero che i militari statunitensi sono integrati nel tessuto cittadino. I fatti di cronaca nera sono purtroppo all'ordine del giorno; si tratta di soldati che rientrano da teatri di guerra, stressati, spossati non solo nel fisico. E poi ci sono le scelte di questo governo in materia di politica estera. Non possiamo ritirare le nostre truppe dall'Iraq e poi permettere che dalle basi italiane partano missioni militari dirette verso quegli stessi teatri di guerra che la nostra politica estera ormai non appoggia più. Infine, come sostiene l'ex ambasciatore Sergio Romano, c'è una questione di sovranità nazionale: bisogna porsi il problema della presenza delle basi Usa alla luce del nuovo ordine mondiale.

Quello della base è stato presentato anche un problema sociale, perché se gli americani se ne vanno si perderanno centinaia di posti di lavoro. Facciamo un po' di chiarezza?

I numeri sono un mistero, come tutte le cose americane. Si va da 340 fino a 8000 posti di lavoro a rischio. I numeri sono gonfiati e gli imprenditori vicentini che non hanno mai aperto bocca sui licenziamenti - 1500 solo alla Marzotto, Folco, Nutti - ora si ergono a paladini della difesa dell'occupazione. A nostro avviso bisogna aumentare gli stanziamenti per finanziare leggi già esistenti. A chi ci chiede dove si prendono i soldi rispondiamo dicendo che il 34% delle spese di stazionamento delle truppe Usa nel nostro paese sono a carico del contribuente italiano. Basterebbe quindi mettersi attorno a un tavolo a trattare. E francamente è assai singolare che la Cgil che normalmente viene accusata di essere conservatrice nella difesa intransigente dei lavoratori, oggi che propone e parla di riconversione del militare per usi civili venga accusata di non difendere il lavoro. La riconversione offre nuove possibilità di occupazione.

In parlamento rivolta pacifista

Matteo Bartocci

L'accelerazione del presidente del consiglio sulla mega-base dei marines a Vicenza è una legnata per la sinistra pacifista, una doccia fredda per chi sperava nel ritrovato feeling dell'Unione con la propria base di riferimento. Fuor di metafora, il «non ci opporremo» del Professore rischia di azzerare l'unico punto di moderata sintonia all'interno del centrosinistra: la tanto ostentata «discontinuità» con le scelte di politica estera del governo Berlusconi. Come se non bastasse il raddoppio degli investimenti in armi deciso dalla finanziaria (1,7 miliardi di euro) incombe infatti la discussione sul finanziamento delle missioni all'estero. Una cosa è certa: se si votasse oggi il governo in senato non avrebbe più la sua maggioranza. E non è questione di «dissidenti» o meno.

La scelta di portare Vicenza in prima linea nella «guerra globale al terrorismo» sconcerta non poco tantissimi parlamentari pacifisti, da Cesare Salvi e Silvana Pisa della sinistra Ds ad Armando Cossutta dei comunisti italiani. «Personalmente credo che con il sì alla base si sia definitivamente rotto il patto tra gentiluomini che avevamo siglato a luglio sull'Afghanistan», avverte il Verde Mauro Bulgarelli, battagliero da sempre e oggi più che mai sulla lotta contro le servitù militari.

Dentro il Prc è burrasca. In tutto il partito non solo nelle minoranze sono in tanti a chiedere un cambio di rotta. Claudio Grassi, senatore di «Essere comunisti», la minoranza più consistente, avverte il governo: «Se il decreto sulle missioni è identico a quello di luglio per me ma non credo solo per me è invotabile. Chiedo al mio partito di essere coerente. Giordano e Russo Spena si sono sempre spesi per una strategia di uscita dall'Afghanistan. Dobbiamo votare solo il finanziamento necessario al ritiro delle truppe». Su Isaf, tranne nel luglio scorso, sinistra Ds, Verdi, Prc e Pdci hanno sempre votato no. Anche per questo dopo il caso Vicenza Salvatore Cannavò e Franco Turigliatto della «Sinistra critica» del Prc, si dicono ormai «svincolati» dagli obblighi di maggioranza in politica estera. Gli animi si scaldano. Pacifiste storiche come Lidia Menapace, Silvana Pisa e Titti Valpiana non misurano le parole, per usare un eufemismo si dicono «sconcertate» dalle parole del presidente del consiglio. «Stiamo tradendo il programma dell'Unione - sbotta Valpiana - per quanto vago rimandava ogni scelta sulle servitù militari a un'apposita conferenza nazionale» L'Italia è già una portaerei a stelle strisce: «Negli ultimi anni sono state ampliate Camp Darby, Sigonella e Aviano, se ci aggiungiamo Vicenza e la Sardegna siamo ormai ridotti a un paese coloniale».

Anche Armando Cossutta, storico leader del Pdci, non è persuaso dalla scelta di Prodi: «Ma il Cermis ce lo siamo dimenticato? Non ci ha insegnato niente? Prodi sbaglia completamente, il governo Berlusconi ha deciso tante cose ma noi siamo stati eletti proprio per cambiarle. Non solo - dice Cossutta - sono contro l'ampliamento della base Usa ma penso che anche quella che c'è oggi, la Ederle 1, debba andare via. Le basi americane non devono esistere». E sull'Afghanistan? «Da soli non ce ne possiamo andare - avverte - ma l'Italia deve predisporsi subito al ritiro negli organismi internazionali».

Maretta anche alla camera. Paolo Cacciari, deputato dimessosi a luglio proprio contro il sì all'Afghanistan vede «il disastro sociale»: «Alla popolazione non interessano gli accordi internazionali o l'alta politica. Lì non è come la Val Susa, nelle istituzioni locali non c'è un «Ferrentino» (il sindaco dell'alta Valle, ndr) capace di guidare la tanta rabbia che c'è per la decisione del governo. Si rischia un distacco dalla politica a tutto tondo». Anche Elettra Deiana, altra deputata bertinottiana doc, è delusa dal sì prodiano: «Il governo ha fatto malissimo. Ma a sinistra sulla politica estera dobbiamo tornare a discutere pubblicamente, perché non è che possiamo andare avanti facendo finta di nulla».

La decisione di palazzo Chigi insomma complica non poco il cammino della maggioranza. E scava fossati anche dove non ci sarebbero: «Contro alcune questioni - la guerra globale dell'amministrazione Bush, le basi militari, il disarmo - a sinistra siamo tutti d'accordo - giura Silvana Pisa - a questo punto dobbiamo mettere da parte le differenze e agire tutti insieme».

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