«L’inchiesta dello Spiegel rivela che nell’attraversare il Mediterraneo perentrare in Europa più di diecimila persone sono annegate dal 2013 e un sacco dimiliardi sono finiti nelle tasche di una rete di trafficanti che ha le sue basiin Germania, Italia e Libia». Internazionale
È il trafficante diesseri umani più ricercato del mondo. Di lui non esistono fotografie, solol’identikit disegnato per gli investigatori. Mostra un uomo tarchiato con untaglio di capelli corto e preciso. Sembra che sia un etiope sulla quarantina eche sia attivo da dieci anni. Al telefono la sua voce suona cupa e gutturale.Sceglie le parole con cura. All’arabo mescola espressioni inglesi smozzicate.Dopo che una delle sue imbarcazioni è affondata al largo di Lampedusa, il 3ottobre 2013, le sue conversazioni sono state intercettate. Lo si sente parlareirritato di life jackets, giubbotti di salvataggio. “Io non gli ho mai datolife jackets, chiaro?”
Quel 3 ottobre, al largodell’isola siciliana, sono affogate 366 persone che stavano quasi perraggiungere la loro meta, l’Europa. Quando l’ha saputo, l’uomo che avevaorganizzato il viaggio si è infuriato più per il danno alla sua reputazione cheper i morti. “Tanti migranti sono partiti con altri organizzatori e sono finitiin pasto ai pesci”, esclama. “Ma nessuno ne parla”. Solo a lui danno la caccia.Lui: Ermias Ghermay. Da quel “giorno delle lacrime”, come lo ha definito papaFrancesco, nel Mediterraneo sono morti altri diecimila migranti: in media unoogni tre ore. Ma nello stesso periodo circa cinquecentomila persone hannoraggiunto le coste italiane. Questo significa che, nel giro di tre anni, nellecasse dei trafficanti africani sono entrati miliardi di euro.
In questo business dimorte, a dettare le regole sono gli etiopi, i sudanesi, i libici e gli eritrei.L’Eritrea è uno dei paesi più poveri del mondo, una dittatura a partito unicoche l’ong Human Rights Watch ha definito “una gigantesca prigione”. Più di unmilione di eritrei sono fuggiti all’estero. Un mercato enorme per i trafficantidi esseri umani eritrei, molti dei quali gestiscono il business dei profughilungo la rotta centrale, quella che attraversa il Mediterraneo. Come dimostranole intercettazioni telefoniche effettuate dalle procure italiane, gli emissaridei trafficanti a Khartoum, Tripoli, Palermo, Roma e Francoforte fanno parte diuna rete efficientissima. Sparsi lungo il percorso, guidano i loro connazionaliverso nord e incassano milioni di euro.
Colpa del destino
Tra tutti gli africani,gli eritrei sono quelli che presentano il maggior numero di richieste di asiloin Germania, dove parallelamente sta aumentando anche il numero di trafficanti.Come quello di armi e di droga, anche il traffico di esseri umani è ormai unodei business più redditizi della criminalità organizzata ed è finito in granparte sotto il controllo degli eritrei. Il tutto sotto il naso delle autoritàtedesche, la cui passività di fronte a questi sviluppi lascia sbigottiti gliinvestigatori italiani. Lo
Spiegel ha svolto le sue ricerche per mesi in Libia,in Italia, a Berlino e a Francoforte. Ha studiato più di mille pagine di attigiudiziari italiani, ha consultato dossier riservati e interrogato i migrantisopravvissuti alla traversata. Da questo lavoro è emersa un’immagine più chiaradei trafficanti di esseri umani, che sono disposti ad accettare la morte dimigliaia di persone, sequestrano i profughi e li vendono come bestie.
Uno deipiù famigerati esponenti di questa categoria è Ermias Ghermay. La sede dell’unitàspeciale Tarik al Sika si trova sull’omonima strada nel centro di Tripoli, lacapitale della Libia. È qui che viene coordinata la lotta a Ghermay e aglialtri trafficanti. Finora nessuno straniero aveva mai avuto accesso a questastruttura. Per entrare nel cortile bisogna passare una porta d’acciaio. Asinistra ci sono gli unici degli investigatori e delle forze speciali, a destrale celle. La Tarik al Sika è un’unità di élite che si occupa d’individuare itrafficanti di esseri umani e gli esponenti delle milizie estremiste. Inconfronto al caos che ormai è la norma in Libia, qui regna l’ordine. Allaparete sono affissi i turni di servizio. I dossier delle operazioni sono classificatie organizzati in raccoglitori.
Il capoturno Hussam (ilcognome non lo rivela per motivi di sicurezza) non indossa l’uniforme, ma jeanse maglietta. Porta la barba secondo l’uso della coalizione Alba libica:accuratamente rasata a formare un semicerchio che va da un orecchio all’altrosotto il labbro inferiore. I suoi capelli sono legati in una coda.“Sappiamo dove sinascondono Ermias e i suoi uomini, conosciamo quelli con cui lavorano eseguiamo i loro spostamenti”, dice Hussam. Poi tira fuori un dossier e legge: fino al 2015 Ghermay ha vissuto a Tripoli in un quartiere popolatoprevalentemente da migranti africani e noto per essere un centro di smistamentodi droga, armi e alcol. Hussam spiega che la sua unità ha fatto irruzione duevolte nell’appartamento di Ghermay, che però è riuscito a scappare in entrambii casi: ora il trafficante risiede a Sabrata, sulla costa occidentale dellaLibia, protetto da guardie armate fino ai denti. Purtroppo, spiega Hussam, leautorità libiche non hanno abbastanza uomini e armi per affrontarlo lì. Molti trafficanti diesseri umani si vantano di avere ottimi rapporti con la polizia libica esostengono di poter tirare fuori di prigione chiunque semplicemente pagando gliagenti. Hussam ammette che queste cose in Libia succedono davvero, ma non nellasua unità.
“Ghermay è un etiope conpassaporto eritreo e va in giro in jeans e maglietta per non dare nell’occhio”,racconta Yonas, un ex intermediario del trafficante. Qualche mese fa la Tarikal Sika lo ha arrestato alla mensa dell’ambasciata eritrea a Tripoli, dovelavorava. Da allora Yonas (uno pseudonimo per nascondere la sua identità)collabora con le forze speciali libiche, che lo hanno usato come testimone.Yonas ha dichiarato che per ogni eritreo che passava Ghermay incassava circa 30euro, e che a bordo del barcone affondato al largo di Lampedusa c’erano anchepersone mandate da lui.
La notte dopo ilnaufragio, racconta Yonas, “Ghermay ha fatto passare sotto la portadell’ambasciata Eritrea la lista dei passeggeri, in modo da avvisare iparenti”. Nelle intercettazioni telefoniche Ghermay si vanta di questo gesto: iparenti delle vittime, in prevalenza eritrei, sono stati “informati”tempestivamente. Queste cose fanno bene agli affari. “Subito dopo ladisgrazia”, racconta Yonas, “gli ho telefonato e gli ho detto di venire allamensa. Volevo che risarcisse le famiglie delle persone annegate. Lui è venutoall’appuntamento, ma ha rimborsato solo il prezzo della traversata”.
In una telefonata a untrafficante Sudanese Ghermay dice che se i profughi sono morti è colpa loro:non hanno seguito le sue istruzioni e hanno stupidamente fatto capovolgere ilbarcone. Ghermay ha la coscienza a posto: “Ho seguito le regole, ma loro sonomorti lo stesso. Si vede che era destino”. Il sudanese concorda: “Non si puòfare appello contro il giudizio di Dio”.
Collaborazione redditizia
Le rovine dell’anticoteatro di Sabrata si vedono da molto lontano. Dichiarate patrimoniodell’umanità dall’Unesco, sono la testimonianza dello splendore raggiuntodall’impero romano sotto il filosofo Marco Aurelio. Oggi questa cittàmillenaria è uno degli snodi della criminalità internazionale e un centro dismistamento delle ricchezze guadagnate grazie al traffico di esseri umani. Daqui passa la maggior parte dei migranti provenienti dall’Africa subsahariana, eda qui partono molte delle imbarcazioni dirette in Italia. Quando arrivano aSabrata i migranti hanno già affrontato un viaggio di migliaia di chilometri.Gli eritrei che sono riusciti a raggiungere il Sudan orientale passando perl’Etiopia pagano ino a seimila dollari per poter proseguire dalla capitalesudanese Khartoum ino alla costa mediterranea della Libia. Per quasi tutti, ilviaggio è una sofferenza. Molti sono sequestrati nel Sahara, rinchiusi esottoposti a maltrattamenti sistematici, finché i familiari non mandano i soldiper la tappa successiva.
Fanos Okba, 18 anni,sopravvissuta al naufragio di Lampedusa, è stata violentata in uno di questicampi di prigionia. “Eravamo costretti a stare in piedi tutto il giorno mentresotto i nostri occhi gli altri migranti venivano torturati in mille modi:scosse elettriche, colpi sulle piante dei piedi”, racconta. “Ad alcuni venivalegata una corda intorno al collo e alle gambe, in modo che al minimo movimentosi strangolavano”.
Per porre fine a queitormenti, i parenti devono versare denaro su conti bancari in Sudan, in Israeleo a Dubai, oppure con l’hawala, un sistema di trasferimento molto usato inMedio Oriente. È un sistema che si basa sulla fiducia: una persona riceve unasomma e un’altra versa la stessa cifra al destinatario in un’altra parte delmondo. Dopo che il denaro è arrivato a destinazione la famiglia del migrantericeve un codice, che dev’essere mandato al cellulare dei trafficanti. Soloallora il viaggio verso nord può continuare.
Una volta arrivati sullacosta libica, i clienti di Ghermay vengono nuovamente rinchiusi, di solito inqualche magazzino a Sabrata o alla periferia di Tripoli. Per facilitare lacontabilità i migranti ricevono un numero d’identificazione un po’ come succedenel commercio del bestiame. Secondo le carte degli inquirenti italiani, Ghermayintrattiene “contatti diretti con trafficanti nell’Africa subsahariana”. Inquesto modo riesce a “comprare carichi” da altri trafficanti “per aumentare iprofitti”.
I luogotenenti diGhermay, che si fanno chiamare “colonnelli”, impongono una disciplinaseverissima. Tenere i migranti nei magazzini costa: per questo chi non è ingrado di pagarsi subito il passaggio verso l’Italia viene picchiato etorturato.
Tutto questo succede inun paese a cui ad aprile l’Unione europea ha offerto un
pacchetto di aiuti delvalore di cento milioni di euro. Succede mentre le navi dell’operazione europeaSophia operano così vicino alle coste libiche che i trafficanti riescono aportare a destinazione i loro carichi spendendo una miseria: bastano un barconemalconcio, pochi litri di gasolio e un telefono satellitare per fare lachiamata d’emergenza. Gli investigatori della Tarik al Sika non riescono asmantellare l’organizzazione di Sabrata perché i trafficanti e le potentimilizie locali lavorano a stretto contatto. I miliziani hanno bisogno di denaroe i trafficanti di protezione: una collaborazione redditizia per entrambe leparti. E il mercato promette bene: di recente l’inviato speciale delle NazioniUnite Martin Kobler ha dichiarato che sulle coste libiche 235mila personeaspettano di partire per l’Italia.
Secondo gli investigatorilibici, Ghermay si è stabilito in un quartiere vicino alla torre idrica diSabrata. “Si sposta da una città all’altra”, spiega il maggiore Bassam Bashir,che dirige l’unità incaricata d’indagare sul traico di migranti nella città.“Le nostre fonti indicano che è qui”. Di recente l’amministrazione cittadina haavvisato che l’obitorio comunale non può più accettare cadaveri di stranieri:l’edificio è troppo piccolo per contenere i corpi di tutti i migranti africaniritrovati sulle spiagge di Sabrata. A luglio sono stati più di 120 e, secondoil sindaco, in un solo giorno ne sono stati trovati 53. Bashir conferma cheGhermay non è l’unico trafficante che vive a Sabrata: c’è anche un imprenditorechiamato Mosaab Abu Grein. Secondo gli inquirenti di Tripoli, è lui il vero redel traffico di esseri umani in Libia. Gli abitanti del posto dicono che AbuGrein ha 33 anni e due figli maschi, è una persona rispettabile e ha un’ottimareputazione, almeno ufficialmente. Sulla sua testa non pende nessun mandato dicattura internazionale ed è il proprietario dello stabilimento balneare piùgrande di Sabrata, ma ha scelto di non rispondere alle accuse degli inquirenti.Un suo ex complice, che ora collabora con le autorità, afferma che solo nel2015 Abu Grein avrebbe fatto arrivare clandestinamente in Europa 45milapersone, quasi un terzo del totale. A quanto pare anche prima della caduta diMuammar Gheddafi il ricco imprenditore aveva ottimi rapporti con la mafiaitaliana e un ruolo di primo piano nel traffico di esseri umani. Secondo gliinquirenti, oggi Ghermay gestisce gli affari di Abu Grein con l’Etiopia,l’Eritrea e il Sudan. Quando gli chiediamo se le autorità europee sono aconoscenza delle indagini dei loro colleghi libici, Hussam scuote il capo. “Voieuropei non fate che lamentarvi dei migranti che vengono dall’Africa”, dice,“ma nessun procuratore italiano o tedesco è mai venuto a Tripoli a chiederecosa succede qui”.
Testimone chiave
Ha il viso largo e gliocchi neri e porta una collana di perline di plastica: secondo il mandatod’arresto spiccato dalle autorità italiane, Atta Wehabrebi intratteneva“rapporti diretti con i trafficanti di esseri umani in Libia, compreso ErmiasGhermay”. Il procuratore Calogero Ferrara sostiene che Wehabrebi è un“testimone chiave”. Ferrara, abbronzato e con un sigaro in bocca, è orgoglioso.È qui nel suo ufficio di Palermo che Wehabrebi ha parlato per la prima volta,nell’aprile del 2015. Le dichiarazioni dell’eritreo, dice Ferrara, sonopreziose come quelle dei capi mafiosi pentiti.
Ferrara lavora per la squadraantimafia della procura di Palermo. Ogni mattina, quando raggiunge il suo ufficioal secondo piano del palazzo di giustizia, passa davanti a una targa checommemora alcuni dei suoi predecessori assassinati. In questo edificiolavoravano anche i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi nel1992. “In Italia ci sono tante cose che non funzionano”, dice Ferrara, “ma dilotta alla criminalità organizzata qualcosa ne capiamo”. Secondo gli inquirentisiciliani i crimini dei trafficanti di esseri umani richiedono misure drastichecome quelle adottate contro la mafia.
La giustizia italiana consente agliinvestigatori di usare intercettazioni telefoniche e riprese video. I testimonichiave sono trattati con generosità e godono di programmi di protezione. Finorala procura di Palermo ha condotto tre operazioni – Glauco 1, 2 e 3 – persmantellare le cellule della rete di Ghermay. Sono stati emessi 71 mandati dicattura. Nell’ultima grande operazione, a giugno, due terzi dei 38 arrestatierano eritrei. Ci sono già state delle condanne, tra cui quella di Wehabrebi,che ora vive sotto protezione. “Tutto ciò che sappiamo su questa rete lodobbiamo a lui”, spiega Ferrara. Wehabrebi è arrivato in Libia dall’Eritreaquando aveva 13 anni, e a Tripoli viveva nella stessa strada di Ghermay, in unquartiere borghese. Ai tempi di Gheddafi gestiva un bar dove i migranti sifermavano prima di cominciare la traversata del Mediterraneo. Wehabrebi sifaceva dare i soldi e li mandava ai trafficanti. Nel 2007 Wehabrebi è arrivato inItalia e ha deciso di mettere a frutto i suoi contatti con i capi del trafficodi esseri umani. Ha scalato le gerarchie e, secondo il mandato di cattura, èdiventato “uno dei boss e dei fondatori” dell’organizzazione criminale, insiemea Ghermay e a un sudanese di nome John Mahray. Wehabrebi era responsabile delleattività in Italia e si occupava di far proseguire verso nord i migrantisbarcati in Sicilia. Doveva farli partire prima che le autorità italianepotessero prendergli le impronte digitali. Senza impronte è difficilerintracciare i migranti: le autorità tedesche non possono ricostruire chiproviene da dove.
Anche se non aveva lapatente, Wehabrebi accompagnava in auto alcuni dei migranti in Germania e perfinoin Scandinavia: un gioco da ragazzi in un’Europa senza controlli allefrontiere. Altre volte se ne occupavano i suoi complici, che partivano da Bolognaalle nove di sera diretti a Rosenheim, nel sud della Germania. “Alle sei di mattinasei già tornato e hai guadagnato mille euro”, gli diceva Wehabrebi. “Se itedeschi ti fermano, di’ che non conosci la gente che hai in macchina, e ilgiorno dopo sei libero”. Secondo Wehabrebi, un business particolarmente redditizioera quello del commercio di documenti falsi. Racconta che alcuni dei suoicomplici eritrei avevano chiesto in cinque diverse prefetture italiane ilricongiungimento familiare per cinque diverse mogli che dicevano di aver lasciatoin Eritrea. Con questo stratagemma le donne, che ricevevano il visto dientrata, si risparmiavano la pericolosa traversata via mare ma dovevano pagarefino a 15mila dollari per il finto matrimonio. Secondo Wehabrebi tutto questosistema funziona anche perché le prefetture italiane non incrociano i dati traloro.
Gli italiani possonopermettersi di essere negligenti. Anche se solo nel 2015 più di 38mila eritreisono arrivati illegalmente in Italia il numero di eritrei è calato del 30 per centorispetto al 2011 fino agli attuali 9.600. Ogni anno decine di migliaia dieritrei sbarcati in Italia proseguono verso la Svizzera, la Svezia o laGermania. Tra loro ci sono moltissimi disperati, ma anche ricchi trafficanti. SecondoFerrara le autorità tedesche sono a conoscenza di questo traffico grazie aEurojust, l’unità di cooperazione giudiziaria dell’Unione europea, ma sembrache la cosa le lasci indifferenti. “Noi italiani svolgiamo indagini, emettiamomandati di cattura e chiediamo riunioni di coordinamento. Abbiamo documenti dacui risulta che la rete ha contatti con la Germania”. Ferrara dice di avermandato ai suoi colleghi in altri paesi dell’Unione quarantamila trascrizionid’intercettazioni telefoniche attraverso l’Europol. Il procuratore ha chiesto aiutoper individuare i vari legami all’interno della rete criminale. I britannici,gli svedesi e gli olandesi hanno valutato i dati e hanno avviato delle indagini,racconta, “ma i tedeschi non hanno fatto niente. Non sembravano troppo interessati.A una delle riunioni di Eurojust hanno mandato una praticante. Li ho sentitidire cento volte la frase: ‘Siamo pronti ad aiutare i colleghi italiani’, eonestamente non ne posso più”.
Arroganza o ingenuità?Ferrara propende per quest’ultima: “Mi ricorda un po’ le mie indagini sulla mafia.Anche in questo caso i tedeschi tendono a dire: ‘La mafia? Da noi non esiste’.Chiudono gli occhi davanti alla realtà, anche se gli abbiamo fornito prove sufficienti”.Gli inquirenti tedeschi sostengono di essere stati informati troppo tardi. Gliitaliani avrebbero condiviso i risultati delle indagini solo dopo che leoperazioni Glauco 1 e 2 erano terminate. E le differenze strutturali tra ilsistema tedesco e quello italiano avrebbero complicato il tutto.
L’eccezione tedesca
Un cordiale signore cheha il suo ufficio vicino alla cattedrale di Palermo si mostra particolarmentecritico nei confronti dei tedeschi. Si chiama Carmine Mosca e dirige un repartospeciale per la lotta contro il traffico di esseri umani istituito presso lasquadra mobile della polizia italiana. A giugno Mosca è andato a Khartoum persupervisionare l’estradizione di un trafficante. Loda la collaborazione con laNational Crime Agency britannica, che ha contribuito alla cattura del sospetto,e con le autorità olandesi, che ascoltano sempre le richieste italiane. Maquando si parla dei tedeschi trattiene a stento la rabbia. Non sarebbe troppodifficile arrestare gente come Ghermay, dice Mosca, ma i suoi uomini devonosuperare ostacoli inutili. Per esempio, normalmente una nave che partecipaall’operazione Sophia attracca in un porto della Sicilia con centinaia dimigranti a bordo. “Noi andiamo lì e indaghiamo”, dice Mosca. “Chiediamo chisono i trafficanti e i contatti telefonici in Libia per poterli mettere sottocontrollo. Quasi tutti gli equipaggi, irlandesi, spagnoli o norvegesi, sono benorganizzati e collaborativi”. L’unica eccezione sono i tedeschi.
Una volta lafregata Hessen è arrivata con un carico di migranti: “Gli ufficiali non cihanno neanche lasciato salire a bordo. Non ci hanno dato nessuna informazione.Non abbiamo catturato neanche un trafficante”, dice. Tutto ciò nonostante Moscaavesse con sé tre procuratori italiani: anche loro sono stati respinti daitedeschi. “Siamo in Italia, ci portano dei migranti e non ci lasciano neanchesalire a bordo per capire com’è andato il salvataggio”, dice Mosca. Quandoabbiamo contattato il comandante della Hessen, ha risposto di non ricordarenessun caso in cui sia stato negato alle autorità italiane di salire a bordo.Il ministero della difesa tedesco afferma che a metà del 2015 “non c’era ancoranessun mandato per combattere i trafficanti nel Mediterraneo” e che, nel corsodelle operazioni congiunte, l’accesso a bordo è sempre consentito “senecessario”. In Sicilia è diventato impossibile ignorare le conseguenzedell’arrivo di migliaia di sopravvissuti ai naufragi. Basta seguire le tracceche Wehabrebi ha fornito agli inquirenti. Per esempio a Palermo, nel vicolosanta Rosalia. Qui, in un bar come gli altri, i trafficanti hanno tenuto i lorocarichi di esseri umani fino a luglio, quando c’è stata una retata. Oggi igiovani guardano in strada con gli occhi vitrei e le guance gonfie di qat, unadroga molto comune in Africa orientale.
A Roma gli eritrei hanno la loro basenel palazzo Selam, un edificio in vetro che ospitava la Facoltà di lettere e filosofiadell’università Tor Vergata e ora offre riparo a circa duemila migranti. Duedei trafficanti ricercati a giugno erano domiciliati qui, altri presso ilcentro per i rifugiati dei gesuiti.
Dietro la porta verde divia degli Astalli 14 i religiosi non offrono solo pasti caldi: i migranti senzaissa dimora possono usare il loro indirizzo per presentare la richiesta di asiloo di un permesso di soggiorno. Dei 38 mandati di cattura emessi all’internodell’operazione Glauco, tre sono stati recapitati ai gesuiti. Wehabrebi, che quandofaceva il trafficante viveva a Roma in un palazzo borghese con vista sui colliAlbani, ha fornito anche altre informazioni durante il suo interrogatorio didieci ore. Una parte delle sue dichiarazioni è ancora secretata. “Stiamo giàpreparando l’operazione Glauco 4”, dice Ferrara. “Stavolta ci occupiamo dei flussi di denaro. Abbiamo chiesto la collaborazione dei servizi d’intelligence.Anche qui vale il motto del giudice Falcone: ‘Segui la pista dei soldi’”.
Per capire dove finisconoi milioni raccolti dai trafficanti bisogna cercare Mana Ibrahim, la moglie diGhermay. Secondo Wehabrebi ha fatto richiesta d’asilo in Germania: “Vive vicinoa Francoforte. Tutto il denaro guadagnato da Ghermay è in Germania”. La procuradi Palermo sostiene di aver trasmesso le informazioni sulla moglie di Ghermayai colleghi tedeschi, ma in Germania nessuno sa niente di Ibrahim. La procuradi Francoforte spiega che la città è indubbiamente “uno dei nodi nella rete deitrafficanti eritrei”, e che ultimamente sono stati aperti “tra i 10 e i 15procedimenti” al riguardo. L’ufficio che si occupa di criminalità organizzataavrebbe indagato più volte sul traffico di stranieri, ma finora sono statearrestate solo persone di secondo piano. Gli inquirenti di Palermo sostengonoche diversi grossi trafficanti dell’organizzazione di Ghermay sono ancora apiede libero in Germania, nonostante sul loro capo penda un mandato di cattura.Già negli anni scorsi esponenti di primo piano della rete dei trafficanti sonostati ricercati in Germania solo su richiesta delle autorità italiane. Tra loroc’è Measho Tesfamariam, considerato responsabile di una traversata avvenuta nelgiugno del 2014 e terminata con la scomparsa di 244 migranti. In seguitol’eritreo è arrivato in Germania e ha chiesto asilo. Nel dicembre del 2014 gliinquirenti lo hanno trovato a Müncheberg, nel Brandeburgo. Un altro esempio è YonasRedae, una figura di primo piano della rete che opera in Sicilia, arrestato afebbraio a Göttingen, dove viveva dopo aver fatto richiesta di asilo. OppureMulubrahan Gurum, tesoriere di una delle organizzazioni più potenti, che ino alsuo arresto nell’agosto del 2015 ha vissuto a Worms.
In Italia sono statepresentate denunce per stupro, lesioni personali, violazione di domicilio efurto contro Gurum, che ha negato tutte le accuse. Ha fatto richiesta d’asilo inGermania con il suo vero nome. Quando sulla sua scrivania è arrivata unarichiesta di estradizione, il procuratore capo di Coblenza, Mario Mannweiler, hapensato che fosse un normale caso di collaborazione amministrativa. Tra lemotivazioni si leggeva: “Appartenenza a un’associazione criminale”. Ma leprocure tedesche, dice Mannweiler, sono sovraccariche di lavoro: “Non è faciletrovare qualcuno che s’interessi al caso e sia disposto a scavare più a fondo”.Quindi i tedeschi preferiscono chiudere gli occhi sui criminali che arrivanonel loro paese attraverso la Libia e l’Italia? O è colpa delle leggi tedesche?In Italia appartenere alla mafia è di per sé un reato penale, in Germania no:prima di arrestare qualcuno bisogna dimostrare che abbia commesso un crimine. ABerlino un agente dell’intelligence tedesca ammette: “Siamo molto preoccupatiper l’alto numero di profughi non censiti presenti in Germania. Siamo ancheallarmati dalla cooperazione fra trafficanti, milizie e gruppi estremisti nelSahara”. La stessa fonte riferisce che ci sono cellule del gruppo Statoislamico in città come Tripoli e Sabrata, dove sembra che viva Ghermay.L’Unione europea spera che la crisi dei profughi possa essere risolta con isoldi. Il cosiddetto processo di Khartoum, lanciato nel 2014 per favorire lacollaborazione tra Unione europea e paesi di transito e di origine deimigranti, dovrebbe fornire aiuti finanziari ai paesi dell’Africa orientale eagli altri stati attraversati dalle rotte dei migranti. Tra i beneficiari c’èanche il dittatore sudanese Omar al Bashir: anche lui dovrebbe ricevere milionidi euro da Bruxelles. Un piano d’azione europeo prevede di rafforzare leistituzioni e il personale dell’Eritrea, il cui governo è accusato da Amnesty Internationald’infliggere un “trattamento crudele, disumano e degradante” a chiunque osimetterlo in discussione. Ma per fermare l’esodo degli eritrei non basteràun’iniezione di denaro. A Francoforte esistono già una comunità religiosaeritrea e una etiope e un consolato eritreo, e intorno alla stazione ci sonobar e ristoranti dove si ritrovano gli eritrei. Uno di loro racconta di averconosciuto Ghermay a Khartoum grazie a un amico che fa parte del giro dei trafficanti.“Come molti trafficanti, in autunno Ghermay si trasferisce in Sudan e frequentale cerchie più elevate”, racconta il ragazzo. Secondo lui nella maggior partedei casi cercare di coinvolgere i governi africani nella lotta ai trafficanti èassurdo: “In Sudan i generali in uniforme trattano Ghermay come un amicostretto. È sotto la loro protezione e quando torna in Libia è protetto dailibici”. Nel cimitero situato poco lontano dalla città di Zawiya, in Libia, le filedi mucchietti di sabbia sembrano infinite. I migranti senza nome che il mare hatrascinato a riva hanno tombe senza lapidi, solo con dei mattoni bianchi. Sonocentinaia, forse mille. Pochi chilometri più avanti un gruppo di uomini dellaguardia costiera di Zawiya osserva il mare. Il loro portavoce, che chiamanocolonnello Naji, si sforza di essere all’altezza del suo nuovo ruolo diresponsabile della lotta al traffico di esseri umani.
Dal 30 agosto le squadrecome la sua sono addestrate dall’Unione europea. Quando avvistano un barconecarico di migranti hanno il compito di riportarlo a riva. Ma è difficilestabilire da che parte stiano questi uomini. I migranti dicono che la primadomanda che gli fanno è: “Di chi siete?”. Come dire: quale trafficante avetepagato? In base alla risposta decidono se il barcone può proseguire verso lenavi dell’operazione Sophia o se invece sarà rimorchiato a riva. Sembra che certitrafficanti siano in buoni rapporti con la guardia costiera, e altri invece noncurino abbastanza questi contatti.
Naji è contento che laGermania aiuti i suoi uomini nella lotta contro i trafficanti.
Ma ha un consiglio pergli amici del nord: “Dovete cambiare le vostre leggi. I trafficanti vi usanocome dei tassisti che vengono a prendere i loro clienti davanti alle coste libiche,in tutta sicurezza e senza chiedere un soldo”.
Il servizio di Der Spiegel è firmato da Alexander Bühler, Susanne Koelbl, Sandro Mattioli e Walter Mayr