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Insomma, era iniziata una serie di fallimenti dolorosi, di crack, di insolvenze, di crisi e dissesti. L’inverosimile cartiera di Arbatax nasce nel ’64 e, di insuccesso in insuccesso, chiuderà definitivamente dopo 20 anni di sostegni a vuoto da parte della regione e dello stato. Nel ’73 nasce l’ancora più incredibile polo di Ottana (il greggio veniva trasportato su gomma sino al centro dell’isola) e muore presto lasciando un deserto e una popolazione di spaesati sgomenti. A Villacidro una fabbrica di vagoni ferroviari, la Keller, apre negli anni Ottanta e, dopo una lunga agonia, fallisce nel 2014. Rockwoll, produzione di lana di roccia, ha una storia di patimenti sino alla cassa integrazione iniziata nel 2008. La tortuosa vicenda della Vinyls, polimeri plastici a Porto Torres, si conclude qualche anno fa con la chiusura degli impianti.
La multinazionale Alcoa installa negli anni Novanta un nuovo ciclo dell’alluminio nel Sulcis costituito da importazione della bauxite dall’Australia (anche in Sardegna c’è bauxite ma la miniera di Olmedo chiude in questi giorni), lavorazione del prodotto intermedio che è l’allumina (durante il quale si rilasciano i tossici fanghi rossi) e infine la fusione del metallo. Veniva raccontato come un ciclo perfetto. Ma Alcoa chiude la fonderia nel 2014 dopo un’interminabile vai e vieni. Fare alluminio in Sardegna è svantaggioso e chiudono. Oltre alla tragedia sociale la produzione di allumina ha lasciato un’immensa quantità di veleno a cielo aperto più di cento ettari, a due passi dall’abitato di Portoscuso. Una perizia del politecnico di Torino tratteggia il quadro drammatico di un disastro ambientale che perdurerà secoli. Un incubo, altro che “sogno industriale”.
Ora esiste un altro tragico progetto di riavvio degli impianti dell’allumina. E si dimentica il processo penale in corso per l’inquinamento (imputato un amministratore delegato di Eurallumina che oggi siede al tavolo della discussione), si dimentica che quei terreni sono sotto sequestro giudiziario, non si fa cenno alle bonifiche obbligatorie e vogliono accumulare più veleni. Nell’oblio anche il rischio di malattia per gli abitanti e i dati epidemiologici inquietanti. Neppure una parola sul fatto che quell’area è un sito di importanza nazionale per l’inquinamento e che grazie a questa politica finalmente abbiamo anche noi un’importanza nazionale. E le centinaia di milioni di euro per il Piano Sulcis che dovrebbe fornire una via alternativa di crescita e progresso ad una delle aree più critiche d’Italia?
Però i fatti sono testardi e restano là a dimostrare che la visione di una Sardegna industriale ha creato un camposanto lavorativo e sociale in una grande porzione dell’isola. Poco aiuto alle imprese locali e, per decenni, rulli di tamburo e guide rosse ai Rovelli e a chiunque venisse da lontano a proporre le produzioni più incredibili e improbabili. Perfino felici che qualcuno distante ci avesse visto, convinti di entrare finalmente nella modernità e nella storia.
Ma oggi finalmente c’è un No, articolato e motivato, del Ministero dei Beni Culturali all’idea folle di riaprire un impianto che continuerebbe a rovesciare veleno infernale a Portoscuso. Qualcuno ha detto che può “rinascere l’alluminio sardo”. Be’, sarebbe un sollievo non sentire mai più parlare di rinascite e reincarnazioni, imparare a darci l’obiettivo di una condizione di normalità e di vivere in una regione finalmente normale. Nel 2012 due economisti, Francesco Pigliaru (oggi Presidente della Giunta sarda) e Alessandro Lanza, descrivono sulla Nuova Sardegna i danni del “modello” Alcoa e Carbosulcis che nel solo decennio 1985-1995 costarono in sussidi a fondo perduto 1200 miliardi di lire, più i contributi della Regione e dell’Enel che sopravvalutò del 100% il prezzo del pessimo carbone prodotto nel Sulcis. E pensare, scrivono Pigliaru e Lanza, che ogni lavoratore con tutti quei quattrini avrebbe avuto una dote di un miliardo di lire con una rendita mensile di circa 1400 euro per vent’anni. E a fine periodo il capitale iniziale invariato. Gli uffici regionali non hanno ancora concluso la valutazione di impatto ambientale sulla riapertura dell’Euroallumina però abbiamo la certezza che di veleni terribili ne avremmo sulla testa un volume enorme pari alla mole di un palazzo di 46 metri, quindici piani intrisi di tossine e della consistenza di un budino. Questo è previsto nel piano di riavvio.
Al No del Ministero dei Beni culturali tre senatori del PD - nostri contemporanei anche se reclamizzano un progetto riapparso da un tempo remoto - hanno accusato un rappresentante dello stato di aver bloccato il processo di riapertura con il suo parere negativo. Eppure glielo impongono le leggi, il diritto. Non un’astrazione sognante: il Diritto. E noi aggiungiamo che lo obbligano, oltre al piano paesaggistico e a varie altre norme, anche il naturale buon senso e il principio ancora più naturale di precauzione. Ma il mondo alle volte è a testa in giù. E così la politica, responsabile del fallimento economico, dell’avvelenamento dei luoghi e del mancato sostegno ai lavoratori, colpevole di una condizione feudale che fa del Sulcis una delle regioni più sofferenti d’Italia, anziché additare se stessa, indica come colpevole del “mancato sviluppo” un rappresentante dello stato perché non pronuncia un affabile sì a quindici piani di schifezze.