casa della cultura, 5 ottobre 2018. Riprendiamo la replica del nostro opinionista alla posizione di Marco Romano e Francesco Ventura su Salvatore Settis. Un excursus che documenta come Settis prosegua la battaglia di Cederna.
Chi non ha potuto conoscere il territorio italiano prima che la classe dirigente e quasi un intero popolo adulto si apprestassero a «distruggere il bel paese - sventramento dei centri storici, lottizzazione di foreste, cementificazione di litorali, manomissioni del paesaggio» (A. Cederna, Brandelli d’Italia, Newton Compton Editori, Roma 1991), non sa di aver perduto un paradiso, per giustezza e bellezza di città e campagne, di paesaggi marini e montani; per stupefacenti lasciti della storia archeologica e artistica, integri o restituiti all’autenticità grazie al lavoro di pochi specialisti o amatori. Chi, ora vecchio, lo ha potuto, dunque ne ha vissuto le sensazioni mentali spirituali fisiche, ha rinunciato al ritorno e quando non lo ha fatto ha provato dolore disgusto e rabbia dinnanzi alle devastazioni di ogni sorta. I giovani, invece, se non aiutati a comprendere il presente mediante il racconto storico, accettano le profanazioni come dato oggettivo.
Quando andai a Paestum per la prima volta, il paesaggio archeologico era intatto, la pianura agraria e la foce del Sele incontaminate. Ma bastarono pochi anni per accertare in un secondo viaggio che dovevo cancellare il luogo dai programmi di futuri ritorni. Era stato avviato uno sconquasso con lo sviluppo edilizio-turistico. Davanti al quale il giovane neo-laureato architetto non reagisce sdegnato. Ciò che vede è normale, è l’esistente indiscusso, è in regola; non prova turbamento perché al tempo della sua adolescenza il paese, come un gigante brutale con gambe d’elefante, aveva percorso buona parte del tragitto che avrebbe condotto man mano alla rovina del territorio. Così le generazioni da me distaccate accettano ignari il paradiso perduto, pezzi di limbo o di inferno come cittadelle assediate, infine violate e distrutte dall’opera dell’uomo inumano. (Questo passaggio trova maggior ampiezza di trattazione nel libro dello scrivente Architettura e paesaggio. Memoria e pensieri, Unicopli, 2000, cap. Il viaggio in un senso).
Il 10 febbraio 1970 la Domenica del Corriere presenta la Carta dei tesori d’Italia, ovvero l’Italia da salvare, risultato di un lavoro instancabile di Antonio Cederna (collaboratore il pittore Gianbattista Bertelli), aggiornamento di una versione di tre anni prima pubblicata nella rivista Abitare. Sarebbero ottantatré (dai cinquantatré precedenti) i luoghi di altissimo valore paesistico selezionati, ma già s’intravedono le minacce di deturpamento. Cederna stesso definisce il parco nazionale del Circeo «una beffa», tanto è esteso il massacro costiero apportato dalla speculazione edilizia. Negli anni successivi proseguirà l’aggiornamento della Carta, ma quando in un «Quaderno» dell’Espresso apparirà un nuovo aggiornamento (febbraio 1987), Cederna dovrà schedare numerosi beni a rischio di annientamento. Fra essi (decine) anche la Paestum di «Templi lottizzati»! Persino i più lontani dei suoi scritti statuiscono al momento una realtà di rovinio paesaggistico, urbanistico e storico architettonico che distinguerà l’intera vicenda nazionale futura. Le parole dei titoli appaiono scolpite come reductio ad unum di una critica incontrovertibile: «Brandelli…» si è visto, «I vandali in casa» (dal 1949 al 1956), «La distruzione della natura in Italia» (1975). Se è per questo, altrettanta verità (riportata nel mio incipit) trasmettono le parole di Leonardo Borgese nel titolo L’Italia rovinata dagli italiani (articoli nel Corriere della Sera dal 1946 al 1970, in Edizioni Rizzoli, 2005).
Il giornalista di Repubblica Giovanni Valentini inventa il termine Malpaese, per contrastare l’abuso di Bel Paese ormai locuzione menzognera rispetto alla condizione dell’ambiente italiano. È il 2003. Il secolo breve si è concluso lasciando diversi mucchi di macerie: concreti nel paesaggio marino, collinare, montano, urbano…; astratti nella disciplina urbanistica discesa a mera indecente contrattazione dominata dai privati, concreti in un’architettura (separata per sempre dall’urbanistica) dai conici mucchi quali figurazione di future accozzaglie edificatorie, da avviare per lo più secondo la novità milanese (City Life, inizio ante 2004) del liberismo ultrà in forma di grattacielo: la più insensata e violenta nell’in-appartenenza ai contesti storici e sociali. Non per accidente sarà proprio Salvatore Settis a dedicare un capitolo di Se Venezia muore (Einaudi, 2014) alla Retorica dei grattacieli: «Come il vestito della domenica del villano inurbato nella commedia di un tempo, così l’orpello dei grattacieli di cui Milano ha voluto agghindarsi… non mette in scena il successo ma traveste l’insicurezza, occulta la cattiva coscienza di chi si sente “arretrato” e adotta frettolosamente, indossandoli come una maschera, modelli forestieri e posticci. L’antico centro storico ne viene sopraffatto e svilito».
Il 2003 è anno di Premio Viareggio. Il vincitore sarà il nostro storico dell’arte e archeologo con Italia S.p.A. L’assalto al patrimonio culturale (pubblicato da Einaudi l’anno prima). Di fronte ai tentativi berlusconiani di alienare il patrimonio culturale pubblico, di indebolire la tutela dei beni, di privatizzare i musei, questo «libro di fuoco […che] riguarda tutti noi» (Cesare Garboli, presidente della giuria) dimostra che il compito dei beni culturali e paesaggistici risiede nella Costituzione e nell’identità nazionale; la tutela del patrimonio artistico, archeologico, architettonico, paesaggistico è stata vanto del paese e ogni tentativo della politica reazionaria di demolirne l’importanza è: un crimine (dice lo scrivente).
La Costituzione sarà ancora riferimento imprescindibile nel saggio di Settis diventato da subito testo sacro per coloro che non rinunciano a contrastare le aggressioni in ogni dove e di ogni tipo al paesaggio, da intendersi lato sensu, come nelle parole di Cederna introduttive del presente articolo. Paesaggio Costituzione cemento, pubblicato da Einaudi nel 2012 non è certo un libro superato, anzi è da rileggere adesso giacché sono passati sei anni invano, se mai si coltivassero valide speranze in un cambiamento delle politiche nazionali regionali comunali riguardo al territorio. (E ancora, la Carta della nazione rappresenterà l’intero oggetto del saggio edito da Einaudi nel 2016, non per caso il titolo consisterà nella locuzione solitaria dotata di punto esclamativo, Costituzione! Lo metto da canto e proseguo).
Esistono, in quell’anno 2012, numerose recensioni d’autore, in gran parte condivisibili. Gian Antonio Stella per il Corriere, Francesco Erbani per Repubblica…(et al.). Il tema cruciale è quasi sempre quello della tutela (del paesaggio, del territorio in generale e dei centri urbani) che nel nostro paese è oggi una specie di cane senza padrone abbandonato sull’autostrada. Eppure Settis ci ricorda, circa la tutela e le istituzioni necessarie, la sorprendente continuità di pensiero fra Croce, Bottai e la Costituzione del 1948; non diversamente si muove la strana coppia Nitti e Croce, per i quali la difesa del paesaggio non poteva reggere senza la sconfitta dei grandi proprietari e degli antiquari disonesti, né senza esaltare la concezione di interesse pubblico.
Tale chiarezza nella posizione del grande storico dell’arte è Paolo Leon ad averla segnalata in «L’Indice dei libri del mese». Un critico che merita un’ampia citazione: «Sembra che Settis colga il punto di rottura che caratterizza la fuga dalla tutela nella divisione del paesaggio tra i nuovi ministeri (Beni culturali, Ambiente), nella diversificazione giuridica dei termini (territorio, ambiente, paesaggio) nella moltiplicazione delle autorità responsabili (Regioni, Comuni Province): dissennati divorzi, come li definisce brillantemente». Eppure «ci fu un non infelice inizio degli anni Ottanta quando la mobilitazione dei soprintendenti, della società civile, degli stessi partiti politici sembrava poter aprire le porte a una stagione di tutela e valorizzazione non a servizio degli interessi della rendita. […] Tutto finì col governo del «Caf» […]. Chi ha ucciso quella stagione aveva dalla sua la nuova civiltà economica: dopo Thatcher e Reagan tutto è denaro, il nodo scorsoio del liberismo è andato stringendosi intorno a ogni diritto sociale e ambientale: il paesaggio e i beni culturali sono le vittime di una pessima cultura, non solo del semplice degrado della politica. Consola, tuttavia, che Settis ricordi i nuovi movimenti per i beni comuni».
Invito a considerare una particolarità del titolo sfuggita a tutti, mi pare. Il termine cementificazione (probabilmente impiegato per la prima volta da Antonio Cederna) è sostituito da cemento, seccamente e duramente. Come non pensare a un rapporto, benché filtrato attraverso diversi strati mentali, con il libro Cemento (SE, 1990, orig. 1982) autore Thomas Bernhard, il più grande scrittore austriaco del trentennio 1960-1990? Un’opposizione irrefutabile al potere; un attacco alla corruzione che infesta l’aria; «un capestro infinito da secoli è stretto al collo di questo popolo cieco, nel quale la verità viene calpestata e la menzogna santificata». La cementificazione è un meccanismo di continuità, è un procedere verso un obiettivo di totalità non ancora raggiunta. Cementificare è un piacere, un godimento; una violazione, nel caso di paesaggi, per gratificare, con l’esperienza, sé come Moloch. Il quale infine provvede al Saoc (Sviluppo a ogni costo) riguardo al territorio, vale a dire facendogliene di tutti i colori, travolgendone i paesaggi, odiati e vilipesi se nudi d’abiti cementizi come la storia materna li ha lasciati. A ogni costo, appunto colate su colate fino a alla realizzazione finale di una nuova realtà paesistica di morte perenne, territorio in puro cemento di spessore e durezza inusitati. Così vige il Malpaese, del Bel Paese resta solo il formaggio.