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Gianni Barbacetto e Ferruccio Sansa
Il sogno di Trieste – Porto Vecchio, tante idee e pericolo spezzatino
26 Aprile 2018
Beni culturali
il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2018. Un altro bene prezioso della nostra storia. Come sempre, in bilico tra l'esigenza di conservare e quella di trasformarli in merci, affidate alla voracità degli interessi immobiliari, l'egoismo delle archistar, l'incultura degli amministratori

il Fatto Quotidiano, 26 aprile 2018. Un altro bene prezioso della nostra storia. Come sempre, in bilico tra l'esigenza di conservare e quella di trasformarli in merci, affidate alla voracità degli interessi immobiliari, l'egoismo delle archistar, l'incultura degli amministratori

La vecchia signora asburgica, abituata ai tempi lenti dei suoi caffè mitteleuropei, ha preso a correre. “Trieste”, dice Mitja Gialuz, presidente della Barcolana, la più grande regata del mondo quest’anno arrivata alla sua cinquantesima edizione, “è una delle poche città italiane che non nasconde il suo mare”, come fanno invece Genova o Palermo. Anzi lo accoglie come prolungamento naturale della sua piazza più bella. Per i triestini, il mare è Barcola, dove si va a fare il bagno anche tutti i giorni, nella bella stagione. Ma ora il mare è soprattutto il porto. Dal Caffè degli Specchi, in piazza Unità d’Italia, vedi il Molo Audace e intravedi, a sinistra, il porto nuovo, a destra il Porto Vecchio. Le ciacole ai tavolini lasciano il posto ai conti e ai progetti. Sono in arrivo tanti, tanti soldi.

Il porto nuovo è già il primo d’Italia per movimento merci, 61 milioni di tonnellate l’anno, con 36 milioni l’anno incassati di sole tasse portuali. È il primo per collegamenti ferroviari, 8.800 treni l’anno, che portano merci in Austria, in Baviera, a Budapest, nella Repubblica Ceca. Il primo anche per il petrolio che da qui parte verso il Centro Europa con l’oleodotto transalpino. “Ma nel 2017”, racconta il direttore del porto Mario Sommariva, “il traffico di container è aumentato del 25 per cento”. Ora i cinesi hanno deciso che Trieste sarà il terminale occidentale della “nuova via della seta”. Arrivano investimenti da Pechino, ma anche da Turchia, Russia, Danimarca, Usa.

Dall’altra parte, c’è Porto Vecchio, reso punto franco nel 1719 da Carlo VI d’Asburgo e poi ampliato dall’imperatrice Maria Teresa. Gli immensi magazzini, i moli, la grande gru Ursus: una struggente area di 600 mila metri quadrati andata via via in disuso perché le navi si sono spostate al porto nuovo. Area demaniale, cioè dello Stato. Bloccata per anni, inutilizzata e inutilizzabile. È stata l’amministrazione di centrosinistra a sbloccarla, nel 2016: con la “sdemanializzazione”, cioè il passaggio dell’area dal Demanio al Comune. L’ha portata a casa il senatore Pd Francesco Russo, affiancato dal sindaco Pd Roberto Cosolini e dalla presidente della Regione Debora Serracchiani. Non ha portato bene: Russo non è stato rieletto in Senato, Cosolini ha dovuto lasciare il posto al nuovo sindaco di Forza Italia Roberto Dipiazza, Serracchiani sarà molto probabilmente sostituita, dopo le regionali del 29 maggio, dal leghista Massimiliano Fedriga. Saranno loro, Dipiazza e Fedriga, a gestire il domani, insieme all’Autorità portuale presieduta dal veronese Zeno D’Agostino. “È partita”, dice eccitato il sindaco Dipiazza, “una magnifica rincorsa verso il futuro”.

La “sdemanializzazione”, infatti, produce due effetti. Il primo: i privilegi doganali del porto franco saranno via via trasferiti dal Porto Vecchio al porto nuovo, attirando nuovi investimenti privati, soprattutto internazionali, per insediarsi nelle aree retroportuali dove si potrà fare non solo logistica (magazzini), ma anche trasformazione, manifattura, assemblaggio di prodotti arrivati via mare. Il secondo effetto: Porto Vecchio diventa il più grande progetto di riqualificazione urbana del Nordest e uno dei più importanti d’Europa. L’area (doppia rispetto al già riqualificato Porto Antico di Genova) con la sua trasformazione avrà un impatto gigantesco su Trieste, che è una città piccola di 200 mila abitanti. Impatto urbanistico, ma anche economico: sono già arrivati 50 milioni di fondi europei, che ora dovranno essere gestiti da Comune, Regione e Autorità portuale. Ma gli investimenti complessivi previsti, pubblici e privati, potrebbero raggiungere i 5 miliardi di euro. Una succulenta torta Sacher che galvanizza gli amministratori che dovranno gestire il progetto, che fa drizzare le antenne ai grandi gruppi finanziari e imprenditoriali che potrebbero realizzarlo e che attira gli appetiti delle organizzazioni criminali: “C’è anche il pericolo d’infiltrazioni mafiose”, avverte il procuratore della Repubblica di Trieste Carlo Mastelloni.

Ma che cosa fare in quei 600 mila metri quadrati? La polemica è tra progetto unitario e “spezzatino”. C’è chi vorrebbe un concorso internazionale per realizzare un masterplan unitario degli interventi. Qualche archistar ha dichiarato il suo interesse, come Massimiliano Fuksas, già impegnato a progettare una grande torre a Capodistria: “Dopo aver progettato a Beverly Hills, a Los Angeles e a Pechino, ora l’unico luogo che mi interessa, dove lavorare, è Trieste”. Il sindaco Dipiazza il 10 aprile lo ha accompagnato in visita lungo i moli e gli angiporti da far rivivere, ma poi ha imboccato la strada del fare una cosa alla volta: lo “spezzatino”, appunto. Un’area resterà pubblica, con un Museo del Mare (nei Magazzini 24 e 25), un centro congressi e polo fieristico (27 e 28), mercato del pesce e ristoranti (30) e un polo per la ricerca (Magazzino 26) in vista del 2020 quando Trieste diventerà Capitale europea della scienza. Altre parti sono già “impegnate”: l’area terminal per la Msc Crociere, l’area ovest già accaparrata dalla Greensisam Real Estate. Il resto? È possibile che arrivino terziario, residenze, commerciale… Nascerà qui la “Città della scienza” dove potrebbero confluire i tanti istituti di ricerca triestini? Sarà l’ennesima speculazione immobiliare? Il Comune manterrà la guida del progetto o lascerà fare a chi porta più soldi?

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