Fra la popolazione gira una battuta: il primo esodo ce lo ha imposto il terremoto e il secondo, come se non bastasse, il G8. La città è un deserto. Le forze dell'ordine hanno fatto il giro degli esercizi pubblici, consigliando la chiusura. Ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono state imposte le ferie forzate. La viabilità è sconvolta, molte strade vietate alla circolazione. Per gli abitanti delle tendopoli, la vita quotidiana in questi giorni è diventata una avventura da corso di sopravvivenza. La sicurezza dei grandi è insicurezza per gli aquilani. Chi ne aveva la possibilità, se ne è andato. Il sogno di Berlusconi, che sperava di accogliere i grandi della Terra fra ali di terremotati festanti si è infranto da tempo. Gli aquilani, aldilà delle appartenenze politiche o culturali, hanno ormai chiaro in testa ciò che sta a loro accadendo.
L'aiuto umanitario, l'assistenza alle popolazioni civili nell'emergenza, come sperimentato in tante parti del mondo, non sono neutrali. Possono essere orientati alla valorizzazione delle energie locali, alla salvaguardia dello spirito comunitario, alla partecipazione cittadina. Possono essere anche però uno strumento potente per favorire passività e dipendenza, ed è questo ciò che il Governo ha scelto di fare a L'Aquila.
I piani per la ricostruzione e i progetti per l'inverno, se esistono, sono un mistero per gli aquilani e perfino per gli amministratori locali, che hanno già espresso la propria contrarietà a quel poco che si sa. Il rapporto fra gli abitanti della città e l'intervento statale è tutto impostato in una relazione fra privati, accentuando la solitudine di chi non si può permettere di intervenire, per reddito o per gravità della distruzione, sulla propria casa.
La ricostruzione poteva essere l'occasione per un processo partecipativo e democratico teso a ridisegnare la città secondo criteri che favorissero una nuova socialità, la sostenibilità ambientale, la coesione comunitaria. Si poteva insomma ricostruire l'Aquila come si dovrebbe ricostruire il mondo del dopo crisi. Sta avvenendo il contrario, in una situazione di incertezza che distrugge l'animo di chiunque ne sia coinvolto, in un clima di militarizzazione e di controllo che diventa ogni giorno più pesante, anche prima del G8.
La gente aquilana che raccoglie i propri panni e lascia la città è, con il suo silenzio, la più forte manifestazione di dissenso che si potesse immaginare, con il suo segno tragico e la sofferenza che porta con sé. E' assai probabile che i media non ce la faranno vedere ma chiunque conosca un aquilano la sa, e ognuno di noi ha il dovere di raccontarla.Quelli che a L'Aquila rimangono, trovano il modo di esprimere la propria voce, in modo dignitoso, pacifico, anche in questi giorni difficili, così come hanno fatto in tanti nella manifestazione sotto palazzo Chigi e nella intensa e forte fiaccolata alle 3,32 di domenica scorsa, a tre mesi esatti dal terremoto.
E' un periodo in cui le persone sentono una distanza abissale dalla politica e anche dalle forze progressiste, dimentiche ormai che la loro sola forza risiede nella condivisione della vita quotidiana delle comunità locali. Le rappresentazioni simboliche di conflitto agite sulla testa, o senza il consenso, delle popolazioni che si vuole difendere secondo noi non colgono nel segno. Gli aquilani vogliono affermare il loro inalienabile diritto di rappresentarsi da sé. Questa esigenza va rispettata, sostenuta, favorita, con spirito di servizio e di solidarietà, in questi giorni assurdi e in tutti quelli che verranno poi.