Prima ancora di avere in mano l’ultimo numero di , sono stata interessata da quello che veniva annunciato come tema centrale: “La solitudine dei conflitti”. Per più d’un motivo. Basta uno sguardo al panorama politico del mondo per avvedersi della quantità e della varietà dei conflitti che lo agitano. Al di là del “conflitto dei conflitti”, quello tra capitale e lavoro, da un paio di secoli presente e attivo nella nostra società, e costitutivo della sua stessa forma, sono innumerevoli i momenti di critica esplicita nei confronti dei problemi più diversi, espressa nei modi - vecchi e nuovi, talora nuovissimi - della conflittualità politica. Sorti soprattutto nell’ultimo cinquantennio, a contestare una società intessuta di violenze, disuguaglianze, gerarchie antiche e nuove, sempre più di frequente si impegnano a esprimere pubblicamente le loro ragioni: di solito però ignorati da tutti i poteri e tendenzialmente cancellati, comunque obbligati alla solitudine.
E’ anche vero d’altronde che in qualche modo ogni conflitto dal canto suo tende a isolarsi, ad agire “in proprio”, all’interno e per mezzo del gruppo che lo rappresenta. Il quale discute, riflette, manifesta per gli obiettivi che si è dato, senza però mai (o quasi mai) rapportarsi e confrontarsi con altri analoghi soggetti. Al contrario spesso accade che dal corpo centrale di un movimento si distacchino filoni impegnati in tematiche parziali, finendo per concentrarsi su un unico aspetto del problema: a volte fino a perdere di vista l’obiettivo centrale, che tutti li contiene e da tutti è determinato.
Per fare un esempio, la sempre più grave crisi ecologica, di per sé ragione indiscutibile di contestazione del “sistema”, ha dato luogo a un folto gruppo di conflitti “secondi”: dal filone centrale delle ricerche scientifiche relative al fenomeno, alle tante iniziative spicciole impegnate a contenere l’inquinamento; all’importante settore di indagine, oltre che di dura contestazione, relativo al nucleare; al folto e combattivo movimento per il diritto all’acqua; alle tante vere e proprie rivolte popolari contro la cattiva o inesistente gestione dei rifiuti, o contro opere ritenute non solo ecologicamente inaccettabili (vedi Tav, Dal Molin, ponte sullo Stretto, ecc. per limitarci all’Italia); ai tantissimi gruppi di animalisti, vegetariani, anti-caccia, e così via. Fino al sempre più grosso e influente complesso (che coinvolge un numero crescente di grossi poteri economici) impegnato nelle energie rinnovabili e in genere nella cosiddetta “green economy”.
E’ in questo senso che il tema messo in campo da Alternative credo potrebbe farsi antefatto di una riflessione più larga e impegnata di quella (peraltro assai pregevole) già svolta; fino a investire i problemi connessi alla crisi in cui si dibatte l’umanità. Che è crisi totale. Crisi economica e finanziaria da un lato, e crisi dell’ ecosistema terrestre dall’altro. Crisi fatta di nuovi sfruttamenti e di crescenti distanze tra classi sociali; di mutati rapporti tra Nord e Sud del mondo; di scelte e abitudini, acquisite magari per via di migliori condizioni di vita. Crisi dell’intera cultura, o meglio della forma antropologica che a partire dal secondo dopoguerra si è andata definendo, in sintonia con l’esplosione di produzione e consumo; anzi facendosene strumento e funzione, fino a identificarsi sempre più compiutamente con la forma-capitale.
Di questa crisi non solo la moltitudine, ma anche la “solitudine” (a volte scelta) dei conflitti denunciano la vastità e la capillare complessità. Con lo sgomento che segue alla sua presa d’atto, e con il rifiuto (o l’incapacità) di affrontarla, o anche soltanto guardarla nella sua interezza; e dunque con la fuga nella “solitudine” del gruppo, di ciascun gruppo, concentrato nell’impegno relativo a un solo problema (o a un pezzo di problema); chiuso al confronto con soggetti portatori di altri, sovente assai prossimi, problemi e conflitti.
E però questi innumerevoli conflitti minori, che di fatto convergono nella totalità della crisi, non di rado si trovano affiancati, ed espressi, in manifestazioni pubbliche “totali”. Penso a due piazze romane, recentemente luogo di eventi in questo senso esemplari: Piazza del Popolo, straripante di gente che a gran voce chiedeva libertà di informazione, e Piazza San Giovanni, dove più di un milione di persone gridava contro il governo Berlusconi. Eventi creati per obiettivi diversi da due soggetti diversissimi: promosso dal quotidiano La Repubblica il primo, inventato da “Facebook” il secondo. Ma ambedue portati al successo dal comune sentire di persone di ogni sorta: disoccupati, precari, immigrati, cassintegrati, ambientalisti, femministe, intellettuali, studenti, insegnanti, pacifisti, no-global, vecchi e giovani militanti di varie sinistre, estreme e non.
Penso anche alla gigantesca mobilitazione pacifista del 2003, che nello stesso giorno, nelle piazze di tutto il globo, ha convocato folle bandiere inni e invettive, e di cui il New York Times ha parlato come della “seconda potenza mondiale”. E forse riflessioni non troppo dissimili si potrebbero fare a proposito delle manifestazioni antigovernative di Teheran; o del ripetuto, massiccio convergere di immigrati dalla banlieu parigina verso altre folle provenienti dai quartieri alti; o anche (sebbene il paragone possa sembrare improprio) dell’elezione di Obama a presidente Usa, voluta da ceti diversissimi, espressione molteplice di sensibilità, problemi e conflitti prima rimasti muti e separati. E ancora, anzi a maggior ragione, a proposito delle vere, profonde, spesso totalmente inedite, rivoluzioni in atto nel Sud del mondo, in America Latina in particolare (1).
Perché in realtà tutti i diversi fenomeni di questo tipo e i tanti altri che si potrebbero citare, per il loro numero e per la qualità che in qualche misura li accomuna, vanno assai oltre il valore del singolo evento e dell’obiettivo specifico, parlando non solo della moltiplicazione dei conflitti, ma di un nuovo senso del conflitto stesso e del bisogno di un mutamento profondo della politica. Come la drammatica crisi delle sinistre in tutto l’Occidente sta a dimostrare. E forse, se la ricerca aperta da avrà un seguito, potrebbe aiutare l’impervio tentativo di dar vita a una politica di sinistra capace di misurarsi con i problemi attuali. Che sono molto diversi da quelli storicamente affrontati e spesso risolti dalle organizzazioni del lavoro.
“Uscire dalla crisi”, è oggi l’insistito proposito di tutte le parti politiche. Le sinistre non fanno eccezione. In che modo uscirne, nessuno con chiarezza lo dice. Le sinistre nemmeno; ma il loro impegno (che naturalmente propone come obiettivo minimo immediato un significativo calo di disoccupazione, cassintegrazione, precarietà, ecc.) oggettivamente comporta ripresa di produzione e consumi, rilancio dei mercati, aumento del Pil, insomma la rimessa in funzione della realtà pre-crisi. In pratica insomma (non troppo diversamente da quanto a gran voce auspicato dal padronato e dalle destre in genere, oltre che dal comune “buon senso”) le sinistre si trovano ad agire per la rimessa in salute di un mondo in cui metà della ricchezza prodotta è detenuta dall’uno per cento della popolazione (2), un sesto degli abitanti è sottoalimentato (3), il consumo di natura da parte dell’organizzazione economica supera pericolosamente la quantità di materie prime da potersi usare senza danni irreparabili (4 ); in cui sono in corso trentacinque conflitti armati (5) e, nella generale caduta del Pil, l’industria degli armamenti è la sola a “tenere”.
Di tutto ciò d’altronde le sinistre - o quanto meno le più avanzate - sembrano consapevoli, quando, pur continuando ad auspicare “ripresa”, “uscita dalla crisi”, ecc., affermano anche che occorre cambiare radicalmente le cose. “Partiamo dal lavoro”, è la parola d’ordine che solitamente ne segue; e direttamente connessi appunto ai tanti gravissimi problemi del lavoro (fabbriche a rischio, delocalizzazioni, licenziamenti, ecc.) sono i temi centrali di dibattiti, convegni, seminari. Sacrosanto. Il mondo del lavoro è quello che più pesantemente soffre la crisi, e confrontarsi con le sue crescenti difficoltà, tentare di contenerne almeno le conseguenze più devastanti, anche interpretando e sostenendo la conflittualità che ne deriva, non solo è un dovere per le sinistre, ma addirittura una sorta di riflesso condizionato.
Sacrosanto e forse inevitabile. E infatti anche gli articoli (tutti peraltro di molto interesse) dedicati alla “solitudine dei conflitti” su , per lo più vertono appunto sull’isolamento degli operai nelle loro disperate proteste; e accusano politica, grande industria, organismi transnazionali, ecc. impegnati a immaginare la rimessa in moto del “sistema”, di fatto prescindendo dal lavoro e dalle sue sorti, quasi si trattasse di una variabile marginale, da potersi tranquillamente ignorare.
Sacrosanto, ripeto. Anche inevitabile? Non so. E provo a domandarmi se, nel mentre stesso in cui si impegnano a ridurre quanto possibile le ricadute della crisi sui lavoratori, non sarebbe utile che le sinistre provassero a sollevare dubbi non solo sulla utilità ma sulla stessa praticabilità dell’”uscita dalla crisi”, della “ripresa”, ecc. : a tale scopo allargando lo sguardo verso altri orizzonti, non meno carichi di interrogativi ma forse anche di “possibili”, magari soffermandosi a riflettere sul malessere di cui parlano proprio i mille conflitti in atto e la loro “solitudine”. E a tale scopo provando a rileggere la propria storia in una chiave diversa da quelle abituali alle numerose indagini retrospettive. Perché, insomma, se dopo un secolo e mezzo di protagonismo spesso vincente, e comunque determinante (in positivo o in negativo) nelle vicende del mondo, le sinistre dovunque sono oggi così malridotte, qualcosa debbono aver sbagliato. E anche le sinistre italiane debbono avere la loro quota di responsabilità.
E’ un discorso che vorrebbe ben più spazio di quello qui disponibile. Provo comunque a indicare alcuni dei momenti che, nell’ultimo mezzo secolo, secondo me hanno segnato una deviazione rispetto alle ragioni fondative delle sinistre, contribuendo a indurne lo smarrimento. E la stessa riflessione aperta da Alternative sui conflitti può aiutare. Soprattutto se si considera che, nella loro innumerevole diversità, i conflitti oggi presenti e attivi sono di fatto moti d’accusa nei confronti della realtà socio-economica imperante, del capitalismo cioè. E lo sono anche quelli che sembrano parlar d’altro, e magari lo credono.
Tralascio il conflitto storico capitale-lavoro. Anche se è difficile ignorare che oggi il rapporto non può non essere per più aspetti diverso dal passato: in un mondo un cui la regola consumistica, connessa al forsennato produttivismo della più recente forma-capitale, in qualche misura modifica lo stesso rapporto lavoratore-padrone, e paradossalmente ne crea una reciproca dipendenza, nei modi ambigui e pericolosi di una nuova alienazione. Senza dire del confronto con i lavoratori dei paesi cosiddetti “emergenti”, dove uno sfruttamento a livelli protocapitalistici, e il fenomeno migratorio che ne consegue, creano insorgenze razziste facilmente strumentalizzate da destra. Ecc. Tralascio anche quel gigantesco conflitto tra capitale e natura che si manifesta nella terrificante crisi ecologica planetaria. Non solo perché ad esso ho già qui dedicato qualche spazio, ma perché credo che a nessuno ormai dovrebbe sfuggire il nesso diretto e decisivo tra capitalismo e squilibrio degli ecosistemi: cioè l’aporia di un sistema economico fondato sulla crescita illimitata del prodotto, in un mondo che illimitato non è; il quale non è pertanto in grado né di fornirgli all’infinito le materie prime necessarie, né di assorbirne e neutralizzarne i rifiuti, liquidi, solidi, gassosi.
Certo meno facile riesce ricondurre alla forma-capitale tutti gli altri conflitti in atto. Eppure credo che, a un’osservazione attenta, il rapporto risulti non solo possibile ma evidente; in particolare, se si riflette sulla qualità sempre più invasiva del “sistema”, sul suo raggiungere ogni momento della vita, e orientare desideri e scelte ai fini di maggior consumo, mi pare sia non solo possibile ma ovvio leggere i mille conflitti d’oggi come forme di denuncia, o almeno di tentato rifiuto. Non posso qui parlare di tutto ciò in modo esauriente; mi soffermo un attimo solo su due “conflitti” di massima rilevanza.
Dopo momenti di risonanza mondiale, il movimento per la pace parrebbe oggi in calo. Ma in realtà il pacifismo continua ad essere un “valore” che, a prescindere dalla militanza specifica, accompagna e sottende la “protesta” nella sua totalità. Ciò che non stupisce in un mondo non solo (ne dicevo sopra) pieno di guerre piccole e grosse; ma in cui la guerra è ormai regola dell’intero agire umano, e aggressività, sopraffazione, violenze di ogni sorta, sono divenuti attrezzi quotidiani di esistenze votate solo a possesso e consumo di merci, per le quali la feroce competitività dei mercati è modello e pungolo. Secondo la linea imposta dai “grandi” del mondo.
Meno facile è connettere alla forma-capitale le ragioni del femminismo, e non solo perché il rapporto uomo-donna discende da una storia assai più lunga di quella del capitalismo. E però non si può dimenticare che la società industriale ha speculato sull’antichissima disuguaglianza tra i sessi, facendone propria la tradizionale divisione lavoro, e di fatto trasformando l’attività famigliare femminile in “produzione e manutenzione di forza lavoro a costo zero”. Ma anche per altri aspetti, meno ovvii, il femminismo (nella sua verità più profonda) non può non porsi contro una realtà sociale in cui i “valori” vincenti in quanto funzionali alla logica del “sistema” (forza, intraprendenza, sicurezza, audacia, capacità decisionale, ecc.) coincidono con i tratti psicologici storicamente identificati con “il maschile”; mentre, sotto l’apparenza di una nuova libertà, i modelli femminili imposti dalla cultura di massa (tv e pubblicità in primis), parlano del più convenzionale immaginario erotico maschile, tuttora prevalente e immutato, semmai solo banalizzato e involgarito.
Non mi pare insomma azzardato riconoscere al fondo dei tanti conflitti “solitari” d’oggi, una più o meno consapevole condanna del capitalismo, e dell’ordine simbolico che ad esso attiene. Una condanna che non appartiene alla grande maggioranza delle sinistre organizzate, nate proprio al fine di liberare il mondo dal dominio del capitale, ma oggi molto lontane dall’assumere una posizione netta in proposito e darsi programmi conseguenti.
So di rischiare indebite semplificazioni, eppure credo che proprio l’evolversi del rapporto tra sinistre e capitalismo sia alla base dell’impasse attuale. Per cui forse occorrerebbe innanzitutto riconsiderare quel momento della seconda metà del secolo scorso in cui la gran macchina industriale capitalistica, superate le strettoie del dopoguerra, rimise in funzione e spinse al massimo le sue potenzialità espansive; per un’accelerata occupazione di sempre nuove porzioni di mondo, e per la loro assimilazione a uno sviluppo identificato con la moltiplicazione dei consumi, che in quanto tale chiedeva un coinvolgimento sempre più profondo delle masse. Furono anni in cui la crescita esponenziale del prodotto, nella forma dell’ accumulazione capitalistica, parve spalancare all’umanità un futuro di crescente sicuro benessere; in cui poco a poco il capitalismo s’impose come una realtà insostituibile e immodificabile, quasi una sorta di fenomeno metastorico. E la rivoluzione anticapitalistica, poco a poco, benché mai esplicitamente rinnegata, fu posta “in sonno”.
In effetti le sinistre non parvero avvertire la portata di un mutamento che si andava imponendo come una nuova forma antropologica, fondata sul prevalere della dimensione economica e plasmata sulle ragioni di una crescita divenuta dogma. Con una continua dilatazione delle quantità di merci prodotte, da imporre ai desideri delle masse: nel dominio del mercato e nell’incontrastato prevalere di una scienza economica sempre più astratta e autoreferenziale, separata dalla concretezza dei problemi. D’altro canto le sinistre non parvero porsi domande su questa evoluzione del mondo nemmeno quando, sul finire del secolo, la storica regola del lavoro a traino della produzione cominciò a venir meno, e mentre il Pil continuava a crescere, riappariva e aumentava la disoccupazione. Quello avrebbe forse potuto essere il momento per un serio ripensamento, e magari per una presa d’atto di quelli che a me paiono i due più gravi “peccati” delle sinistre.
Il primo attiene al fatto che in nessun modo esse abbiano utilizzato a vantaggio del lavoro, quello straordinario progresso scientifico e tecnologico che fu qualità precipua e orgoglio della storia più recente. Forse paralizzate dalla paura della disoccupazione tecnologica, o forse condizionate da una deformazione mentale “lavorista”, non hanno comunque saputo leggere e usare le eccezionali possibilità offerte da tecnologie sempre più capaci di sostituire il lavoro umano, fisico e mentale. Hanno così interamente regalato le grandi conquiste dell’intelligenza umana al capitale: il quale con prontezza e determinazione le ha utilizzate secondo la propria logica solo per l’aumento del prodotto. Dimenticando quella “liberazione del lavoro e dal lavoro” che è parte non secondaria della cultura di sinistra: sogno ricorrente dei grandi utopisti, ma presente anche in diversi passaggi di Marx; ripreso da Keynes nell’ipotesi di un futuro in cui dedicare al lavoro non più di tre ore al giorno; recuperato nel Sessantotto da un combattivo movimento per la riduzione degli orari, al fine di “lavorare meno, lavorare tutti”, ecc. Di fatto arrendendosi a una realtà insensatamente orientata ad aumentare ancora e ancora i tempi della produzione, e quindi la quantità dei prodotti, nella linea di quella crescita non importa di che cosa e perché, che già l’ambientalismo più qualificato indicava come responsabile della devastazione del Pianeta.
E qui incontriamo il secondo grave “peccato” di cui le sinistre sono state e sono tuttora responsabili. Alla pari di tutto il mondo politico infatti le sinistre hanno sostanzialmente ignorato il crescente dissesto dell’ecosfera, limitandosi ad occuparsene marginalmente, quando l’eccezionalità degli eventi lo imponeva; mai (fatto salvo l’impegno isolato di persone o piccoli gruppi) soffermandosi a considerare il fenomeno nella sua interezza e nelle sue cause. Alla pari di tutta la politica, ripeto. Con un’aggravante però, non secondaria. Dovunque, a pagare le conseguenze del guasto ecologico sono i molti milioni di persone in fuga da tornado, alluvioni, desertificazioni, inquinamenti irreversibili; sono operai avvelenati dal loro stesso lavoro; famiglie costrette a vivere in prossimità di fabbriche fortemente inquinanti; contadini tenuti a maneggiare quantitativi massicci di pesticidi, diserbanti, e altri materiali tossici, ecc; cioè proprio quelle fasce sociali che le sinistre sarebbero tenute a difendere. Ma tutto ciò non è mai stato considerato.
Da qualche tempo, è vero, di fronte all’ormai innegabile, sempre più catastrofica crisi ambientale, anche le sinistre - come l’intero mondo politico - dedicano al problema qualche attenzione. Ma - come tutti - occupandosi di fatto solo degli aspetti del problema che incidono negativamente sull’economia, e pertanto attivandosi in settori conciliabili con le esigenze della produzione: vedi la corsa alle energie rinnovabili, certo utili per ridurre le emissioni di gas climalteranti, ma non più quando diventano strumento di rilancio produttivo. Come è apparso evidente alla recente Conferenza di Copenhagen: fallita ai fini della riduzione di gas-serra, ma assai utile all’incontro tra grandi imprese, febbrilmente impegnate nel lancio mondiale della “green economy”, anzi del “green business”, fondato sull’uso crescente di “green energy”, così di approdare alla massima possibile “green growth”; usando cioè le “rinnovabili” secondo la stessa regola produttivistica contro cui erano nate.
Di fronte alla evidente insostenibilità della forma economica e sociale dovunque attiva, ma dovunque in sempre più grave affanno; di fronte alla non meno evidente impraticabilità delle politiche portate avanti dai grandi poteri, incapaci di immaginare qualcosa di diverso da altre centinaia di milioni di automobili da produrre ogni anno, altri miliardi di chilometri di strade autostrade trafori, ecc, onde farle circolare, altre migliaia di nuovi aeroporti per la moltiplicazione di scambi planetari di merci, altre foreste di grattacieli ad aumentare la cementificazione del mondo…. Il tutto senza risolvere i problemi dei miliardi di senza-casa, di disoccupati, di spietatamente sfruttati, che aumentano di pari passo con i disastri ecologici… Non toccherebbe alle sinistre (ciò che ne resta, ma anche ciò che ne sta nascendo, in America Latina, qua e là in Africa, Indonesia, ecc.) considerare che il capitalismo, così come è nato, prima o poi finirà… e - perché no - provare ad aiutarne l’esito? Magari recuperando quel “lavorare meno e tutti” che, sottoposto a una seria riflessione, potrebbe significare assai più di quanto letteralmente promette, e forse aprire una finestra su un possibile “mondo diverso”.
Utopia? Ma insistere ad operare per la sopravvivenza dell’attuale forma-mondo, che altro è se non una sorta utopia negativa, che andrebbe a coincidere con la catastrofe totale?
1) Sulla materia vedi anche l’articolo di Aldo Garzia e Franco Russo su N° 11
2) Dati OCDE 2008
3) Dati FAO 2009
4) Vedi ricerche del Footprint Institute, secondo cui per mantenere l’attuale livello di consumo dei paesi occidentali occorrerebbero 5,4 pianeti.
5) Dati Archivio Disarmo 2008