Due articoli del tutto indipendenti sull'edizione nazionale e milanese del Corriere della Sera, 4 gennaio 2015, accostano senza volerlo un panorama internazionale di realizzazioni attraverso le nuove reti tecnologiche, e una lacuna forse tutta italiana, con postilla (f.b.)
LA RISCOSSA DI MEDELLIN, LE RETI SOLIDALI DI BOSTON: MAPPA A SORPRESA DELLE CITTA' DEL FUTURO
di Giampiero Rossi
Parigi, Boston, Melbourne, ma anche Medellin e Milano. Secondo l’architetto Carlo Ratti — progettista e docente al Mit di Boston — sono queste, tra conferme e novità, le città in cui nel 2015 potrebbe manifestarsi con maggiore evidenza la «primavera urbana». Il punto di partenza è una non-novità: l’uso delle reti. Però, come spiega Ratti, «le possibilità di interconnessione stanno innescando nuove dinamiche collaborative, dal basso. Lo abbiamo visto in modo eclatante durante le cosiddette primavere arabe e credo che, in modo analogo, sia un concetto che possiamo applicare a una prossima primavera urbana».
Ma dove e come saranno più visibili i frutti di questa nuova stagione metropolitana? Ratti, che nell’ateneo del Massachusetts dirige il Senseable City Lab segue diversi progetti che, a suo giudizio, potranno diventare modelli per la crescita della qualità della vita e delle relazioni nelle grandi città. «Qualche settimana fa, a Parigi, ho incontrato il vicesindaco con delega all’urbanistica, Jean-Louis Missika, che ha lanciato un programma molto interessante per lanciare progetti di innovazione. Lo hanno chiamato “Reinventer Paris”, l’idea è proprio quella di usare il crowdsourcing , cioè una sorta di asta di idee per grandi operazioni di trasformazione urbana. La città ha messo a disposizione oltre venti siti, alcuni di grande valore e in pieno centro, che verranno assegnati non al miglior offerente, ma a chi presenterà l’idea di più innovativa, usando un processo di candidatura dal basso che quindi può partire da qualsiasi cittadino, sebbene sia richiesta anche la presentazione di un progetto di finanziamento. È interessante osservare come questo meccanismo stia scompigliando i giochi dei grandi sviluppatori nella capitale francese. Perché questo modello implica come obiettivo finale un guadagno in termini di qualità urbana».
Sulla sponda opposta dell’Atlantico, un altro esempio il professor Ratti ce l’ha proprio sotto gli occhi, perché si sta sviluppando nella «sua» Boston. «L’amministrazione ha creato la piattaforma “New Urban Mechanics”, un sito web che raccoglie le segnalazioni di qualsiasi tipo di problema, guasto o inefficienza in città e permette ai cittadini di proporre soluzioni, o anche di agire, magari coalizzandosi, sempre grazie alla possibilità di fruire di informazioni in rete. Insomma, tutti possono trasformarsi in “meccanici della città” invece di rimanere alle vecchie procedure di segnalazione e attesa di un intervento dall’alto. Un po’ come accade nell’organizzazione degli spalatori per le grandi nevicate».
Una città da tempo considerata campione nei sistemi di condivisione è Melbourne, in Australia, «dove il sindaco Bob Adams ha creato un perfetto equilibrio tra residenze e uffici in ogni zona, in modo da rendere più efficienti ed economici i servizi pubblici. Non è un caso che la città risulti sempre ai vertici delle classifiche mondiali sulla qualità della vita…». Poi c’è sempre l’esempio di Medellin, in Colombia, «che già da un po’ si sta trasformando da uno dei posti più violenti del mondo a un modello di integrazione tra i quartieri, a partire dalle favelas più emarginate, ora collegate con il centro con teleferiche o scale mobili». Mentre Copenaghen ambisce a diventare entro 5 o 10 anni al massimo la prima città carbon free , senza inquinamento da monossido di carbonio. Ma il 2015 è l’anno di Milano: «In fin dei conti — spiega Carlo Ratti — sul tema dell’alimentazione l’Expo è una forma di crowdsourcing : ci sono tante persone che convergono in un posto e mettono insieme le proprie esperienze. È così che si cresce».
UNA SMART CITY DI CARTELLO
di Massimo Sideri
Chi si avvicina alla città percorrendo le autostrade trova dei cartelli con su scritto: «Milano, Industria, Commercio, Cultura, Arte». Al nostro distratto occhio da milanesi probabilmente il cartello non trasmette nessuna informazione e appare un elemento scontato del panorama. Ma vale la pena ragionare su quale possa essere il messaggio sintetico dell’enorme «bigliettino da visita» della città per tutti gli altri. Ora su arte e cultura non si può eccepire nulla. Milano non è certo più la città di Giovanni Testori o del teatro di Giorgio Strehler ma sarebbe come dire che Parigi non è più la città di Édith Piaf. Il successo dell’offerta annuale di mostre di respiro internazionale è nei numeri e negli ultimi giorni dell’anno la fila per entrare a vedere i capolavori di Van Gogh, Chagall e Segantini occupava un intero lato di piazza del Duomo. Per fare un altro esempio il calendario del Teatro alla Scala, nonostante le polemiche, riesce sempre ad attrarre i grandi solisti. Sul commercio nulla quaestio : Milano è culturalmente un crocevia commerciale fin dal Medioevo e l’anima dei commercianti viene colpita ma non piegata dalla crisi.
Ma veniamo alla prima parola che dovrebbe rappresentare la città: l’industria. Il tessuto socio-economico risente ancora della presenza delle fabbriche e della cultura operaia. Ma il declino industriale dell’Italia passa anche da Milano come testimoniano le ex fabbriche trasformate in loft. Insomma, l’industria è un’immagine forte ma che potremmo anche pensare di rottamare. L’alternativa c’è. Ora che nel 2015 l’Expo offrirà alla città un’occasione irripetibile di visibilità potrebbe essere il momento giusto per imporre anche una nuova declinazione che, nella sostanza, è già a buon punto: Milano come smart city e centro dell’innovazione.
Come documentato questa è la città della mobilità intelligente, della rete in fibra ottica più estesa d’Europa. È un hub di Internet e Banzai, Libero e Jobrapido — tanto per citare le più importanti esperienze di società digitali — non a caso sono sorte a Milano. Non si consiglia solo di fare marketing che pure non sarebbe un’idea così peregrina (Israele ha da tempo istituzionalizzato una vera campagna di propaganda internazionale per imporre la propria immagine, del tutto legittimata dai fatti, di «Start up Nation»), ma di mostrare che il cambiamento non ci spaventa. Sindaco Pisapia, non so quanto possa costare cambiare i cartelli di ingresso nella città, ma vogliamo scrivere «Milano: smart city, commercio, arte e cultura»?
postilla
Il caso di Milano, che casualmente chiude l'articolo sull'edizione nazionale ma “riapre” sui medesimi temi quella locale, è solo emblematico di tante tante altre città italiane dove sostanzialmente il tema smart city, variamente declinato, lo è assai malamente. E in fonda basta scorrere quell'elenco di iniziative sfiorate negli esempi del MIT per cogliere una differenza sostanziale: dove il termine ha assunto senso compiuto, con effetti concreti sulla qualità della vita degli abitanti, è perché lo si è interpretato correttamente, come mezzo, non come fine. Ovvero non come un modo come un altro per far girare risorse economiche, pasticciando con reti e apps anziché con infrastrutture o promozione di vaghe innovazioni varie, ma come strumento di cambiamento, dopo aver fissato obiettivi ambientali, sociali, di mobilità, e via dicendo. Altrimenti il bello slogan è destinato a rimanere tale, salvo per chi lo sventola a pubblicizzare i fatti propri (f.b.)