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Stefano Isola
Smart cities. Lo sterminio della nozione di città
7 Marzo 2017
Per comprendere
«Questo processo di distruzione dello spazio pubblico sono fenomeni strettamente connessi alla riduzione generalizzata del lavoro a "servitù automatizzata", dell’istruzione ad "addestramento tecnologico", della democrazia a "partecipazione controllata"». La Città invisibile, 4 marzo 2017 (c.m.c.)

«Questo processo di distruzione dello spazio pubblico sono fenomeni strettamente connessi alla riduzione generalizzata del lavoro a "servitù automatizzata", dell’istruzione ad "addestramento tecnologico", della democrazia a "partecipazione controllata"». La Città invisibile, 4 marzo 2017 (c.m.c.)

«Ogni cinque giorni la popolazione urbana nelle città del mondo aumenta di un milione», ci avvertono i tecno-ecolocrati, con la gravità di chi sta pronunciando una sentenza di condanna e con la sicurezza di chi sta riconoscendo un’inesorabile legge della storia.

Sullo sfondo di questa neutra minaccia, come uno scenario naturale, c’è la compiuta attualizzazione di ciò che J.C. Michéa ha chiamato la distruzione delle città in tempo di pace: l’ipertrofia globale del sistema suburbano, la trasformazione dello spazio cittadino in un’alternanza delirante di tristi periferie, quartieri residenziali «senza misura», capannoni e centri commerciali come templi per la terapia del consumo al dettaglio, snodi e svincoli stradali per movimentare l’irrinunciabile traffico automobilistico, con l’opzionale coreografia di centri storici trasformati in vetrine hi-tech e “parchi giochi” per turisti, videosorvegliati come prigioni a cielo aperto.

In tutto ciò si mettono in opera inedite contrazioni e convergenze, così che non è più possibile distinguere tra i tanti termini in circolazione: tecnopoli, megalopoli, conurbazione, etc. La “città globale” cresce con il “pianeta urbano”, la metà dell’umanità che consuma oltre l’ottanta per cento delle risorse energetiche e che abita agglomerati tenuti insieme per mezzo di dispositivi di mobilità e interconnessione, delocalizzazione e rilocalizzazione, decomposizione dei quartieri e riorganizzazione delle relazioni spaziali dietro le spinte dello “sviluppo” economico e del mercato della “sicurezza”.

Questo processo di distruzione dello spazio pubblico e la conseguente giustapposizione cumulativa di ambienti privatizzati e flussi sorvegliati, sono fenomeni strettamente connessi alla riduzione generalizzata del lavoro a «servitù automatizzata», dell’istruzione ad «addestramento tecnologico», della democrazia a «partecipazione controllata», dei servizi pubblici a «servizi d’interesse generale», insomma a tutte le componenti attive della guerra condotta dal modo di produzione dell’economia politica contro l’uomo, le sue attività pratiche, la sua ragione socializzata, il suo “mondo comune” come spazio di permanenza e di azione, che nasce proprio nella culla della città e che vi trova la sua naturale protezione.

Ma se questa guerra ha trovato fino a tempi recenti una sua espressione primaria nella ricorrente modificazione strategica dell’ambiente architettonico urbano, negli smembramenti e nelle compartimentazioni che organizzavano e delimitavano le aree di pertinenza e di appartenenza delle diverse classi sociali, oggi, sotto il vessillo della scarsità delle risorse e dell’emergenza ambientale, la Banca mondiale e i connessi “organismi internazionali” sperimentano nuovi modi d’intervento centrati in modo privilegiato sulle metropoli cosiddette “emergenti”, per farne dei modelli operativi a vocazione universale.

Com’è attestato con chiarezza dalla “crisi” in corso, l’effettivo movimento socio-tecno-economico – di persone, cose, dati, denaro, petrolio, acqua, elettroni, etc. – sul quale si basa il meccanismo d’incessante modificazione-perpetuazione del modo di produzione, si avvale oggi di una massa di popolazione largamente inferiore a quella che abita l’intero pianeta.

Ci sono dunque città “utili”, e città che non lo sono. Le prime sono quelle maggiormente suscettibili di “attirare gli investitori”, innanzitutto perché offrono infrastrutture come strade scorrevoli, aeroporti, servizi di “interesse generale” e di “alta qualità” (alias con elevato grado di automazione e interconnessione digitale); hanno almeno un’università in grado di mettere a disposizione esperti nei settori chiave delle tecnologie integrate al modo di produzione, in particolare nel campo dei “big data”, dei “sistemi distribuiti”, del “data intelligence”, dell’erogazione di “servizi smart”, e via innovando; inoltre garantiscono produttività, mobilità e adattabilità al cambiamento della mano d’opera; sono in grado di migliorare la “raccolta di risorse” interrompendo i “cicli di dipendenza”, ad esempio smettendo di sovvenzionare l’abitazione e i servizi urbani per abbandonarli eventualmente al mercato privato; assicurano garanzie di “pace sociale” dando prova di una governance efficace nella gestione della messa in scena della partecipazione; infine, ma è un aspetto primario, sono provviste di un grado sufficiente di “eco-sostenibilità”, soprattutto sul piano energetico.

I conglomerati urbani o suburbani in grado di garantire in misura sufficiente tali caratteristiche sono detti «città intelligenti» o, nell’imperante gergo anglico, smart cities (dove l’aggettivo smart risuona anche di altri significati tra cui “alla moda”, “abile”, “malizioso”). Le dieci grandi città attualmente classificate le più “intelligenti” del pianeta sono Copenaghen, Tel Aviv, Singapore, New York, Barcellona, Oslo, Londra, San Francisco, Berlino, Vancouver. Ma molte altre ambiscono a questo marchio. E così Seul prepara un piano di “crescita verde”. Abu Dhabi ha avviato da alcuni anni un progetto di città satellite sostenibile ad emissioni zero, Masdar City, in grado di accogliere cinquantamila residenti e altrettanti pendolari le cui condizioni di vita, logistiche e ambientali, siano monitorate e regolate nei minimi dettagli. Al momento appare però un deserto in mezzo al deserto, animato solo dall’onnipresente ronzio di un’enorme torre del vento per il condizionamento dell’aria, un nonluogo già costato quasi venti miliardi di dollari ma frequentato solo dagli addetti alla sicurezza e alle pulizie.

Già da qualche anno, la proverbiale filantropia internazionale dell’Ibm (nota ad esempio per la fornitura di macchinari e assistenza tecnica necessari ad “automatizzare” la gestione dei campi di sterminio nazisti) ha avviato la Smarter Cities Challenge, una selezione tra varie città in tutto il mondo, sulla base della solerzia dei loro amministratori nel volersi consegnare alla tecnocrazia di “ultima generazione”, per irrorarle di esperti, innovazione tecnologica e sovvenzioni al fine di renderle, appunto, smarter.

Tra queste, Birmingham, che sta cercando di riconvertire il proprio centro storico in un paradiso del commercio digitale a banda larga ultraveloce; e Siracusa, che dovrebbe cercare di «conciliare tecnicamente le diverse anime del territorio»: industria petrolchimica e turismo di qualità. E, curiosamente, anche Accra, la città del Ghana nota per un suo suburbio che “accoglie” ogni anno milioni di tonnellate di rifiuti tecnologici dall’occidente, che poi vengono bruciati dagli abitanti per ricavarne metalli rivendibili. Si dà il caso che recentemente vi sia stato scoperto anche un consistente giacimento di petrolio.

Così, solo le “città intelligenti” – adattabili ai sempre nuovi scenari globali perché “messe in forma” con i principi dello “sviluppo sostenibile” – potranno restare “competitive” ed eventualmente sopravvivere alle diverse catastrofi che la crescita incessante della popolazione mondiale urbanizzata insieme alla crescente scarsità o deperibilità delle risorse (acqua, energia, etc.) ci promettono. E parrebbe precisamente questo il loro scopo. In tutto ciò s’intravede poi anche un elemento di circolarità, un mulinello che si avvita su se stesso, e che esprime eloquentemente il tipo di “dinamica” che sostiene oggi il sistema socio-tecnoeconomico.

È evidente, infatti, che la possibilità di accedere allo status “smart” sarà tanto maggiore quanto più le condizioni di partenza sono “vergini”, cioè quanto più radicalmente la tradizionale dimensione urbana – che in questo contesto non può rappresentare altro se non un inutile ostacolo alla “modernizzazione” – sarà stata smembrata e annientata, e la maniera più efficace per raggiungere in tempi brevi condizioni di questo tipo, a meno di non progettare una “città” da zero, è evidentemente quella di passare attraverso una “catastrofe”, ad esempio un disastro naturale come un forte terremoto o una devastate inondazione, oppure un disastro di natura tecnologica, ad esempio nucleare, o ancora un bombardamento o una guerra civile, con le connesse condizioni di paralisi e di trauma psichico collettivo che in questi casi investono la popolazione sopravvissuta per lungo tempo, mettendola nelle condizioni “ottimali” di poter accettare l’inaccettabile.

Gli esempi si moltiplicano. Gli abitanti di New Orleans, sparpagliati e deportati anche in Stati lontani, dopo che alcuni anni fa l’uragano Katrina aveva colpito la loro città, hanno scoperto che le loro case, le loro strutture pubbliche, gli ospedali e le scuole, non sarebbero mai state riaperte o ricostruite. A loro posto, si sta ri-pianificando una nuova città intelligente, un paesaggio “verde” e “neutro”, in cui l’ingegneria sociale, coadiuvata dagli esperti dell’Ibm, si cimenta nella gestione controllata di tutti i “parametri vitali”: la circolazione, il consumo energetico, l’inquinamento, la “comunicazione”, la “salute dei cittadini”, etc. Un destino simile è ampiamente prevedibile per la regione di Fukushima, in Giappone, dove, tra le altre cose, la bioingegneria è già al lavoro per mettere a punto nuove specie di riso in grado di crescere in terreni impregnati di radioattività.

Più vicino a noi, l’occasione per fare “prove di smart city” arriva dalla città-non-più-città dell’Aquila, dopo la completa disgregazione del tessuto sociale e lo spopolamento del territorio che hanno seguito il devastante terremoto del 6 aprile 2009. Il progetto, avviato nel 2012 dall’Ocse e sostenuto dallo Stato italiano, prevede la trasformazione dell’Aquila in un «laboratorio vivente», dove «sistemi energetici intelligenti», «moderne tecnologie edilizie» e «nuovi materiali» possano essere usati per «la progettazione di nuovi luoghi di vita» e per «celebrare e valorizzare la storia della città»; in cui «possono essere creati luoghi di lavoro moderni, creativi e flessibili, che siano adatti a nuovi modelli di business», così che «tutti gli spazi e i luoghi nuovamente progettati e ricostruiti diventerebbero delle vetrine volte a dimostrare l’applicazione inequivocabile di queste innovazioni, e, in quanto tali, diventerebbero parte integrante dell’offerta turistica, parallelamente ai beni ambientali, culturali e storici già esistenti».

Società come Ibm, TechnoLab e Telecom sono operativamente coinvolte nell’esperimento, che tra l’altro ha già trovato due gemellaggi “intelligenti” nelle città di Lorca in Spagna, anch’essa vittima di un violento terremoto nel maggio del 2011, e di Mostar in Bosnia, simbolo della guerra civile nella ex-Jugoslavia. Le amministrazioni delle tre città hanno sottoscritto «un patto di amicizia volto a condividere un programma di ricostruzione basato su modelli ecocompatibili, all’insegna del risparmio energetico, della mobilità sostenibile e della sicurezza». Gli esiti a medio termine dell’esperimento aquilano sono per altro tristemente immaginabili: una vetrina di facciate pseudo-antiche, falsificate e rese “sensibili” dal maquillage nanotecnologico, dietro le quali c’è solo la città invisibile del turismo affaristico e del controllo sociale. I “cittadini”, ovunque risiedano, restano altrove, dissolti in uno spazio senza storia.

Peraltro, laddove ve ne siano le condizioni e le risorse, questi esperimenti a cielo aperto per testare le “nuove tecnologie” nella gestione della sopravvivenza possono essere fatti anche su un terreno integralmente vergine, in cui gli abitanti umani sono solo virtuali. E anche qui la storia si ripete, seppure con mutevoli sembianze: il 5 maggio 1955, una bomba atomica da 31 chilotoni (circa il doppio di quella sganciata dieci anni prima sulla città vivente di Hiroshima) fu fatta esplodere su Survival City, una città fantasma costruita appositamente dall’esercito degli Stati Uniti nel deserto del Nevada e completamente equipaggiata di abitanti-manichini, derrate alimentari, acqua corrente ed elettricità, e con telecamere installate in posizioni strategiche per registrare i dettagli dell’esplosione. Tra gli obiettivi dell’esperimento, la messa a punto dei parametri di costruzione dei rifugi antiatomici.

Oggi, la società privata Pegasus Global Holdings, sta progettando un’altra città fantasma nello stato del New Mexico, chiamata The Center for Innovation, Testing and Evaluation, allo scopo di testare il grado di penetrazione e di efficacia dell’innovazione tecnologica integrata – la convergenza di nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie dell’informazione e scienze cognitive – nella gestione di una “città ideale”, inserita in un contesto di emergenza socio-ambientale permanente e totalmente depurata dalle scorie della storia. La presenza di abitanti in carne ed ossa, in questo caso, non è prevista, non perché verrebbero inceneriti da un’esplosione, ma perché non sono, letteralmente, necessari a definire il “contesto urbano”.

In una “città ideale” come questa, infatti, e in misura progressiva anche nelle città dove è in corso un processo di riconversione come quelli sopra descritti, la “gestione sociale” non avverrebbe più per mezzo dei dispositivi “classici” di inclusione-esclusione (partecipazione rappresentativa, organizzazione architettonica, polizie pubbliche e private, videosorveglianza, etc.) ma giungerebbe soprattutto dalla completa smaterializzazione dello spazio pubblico: un luogo esiste solo in quanto è provvisto di coordinate geografiche e di un’identità anagrafica digitale, divenendo così una location (le coordinate geografiche creano la connessione tra lo spazio fisico e il suo corrispondente digitale anagrafico) e così l’intero spazio fisico esiste solo in quanto è posto in corrispondenza con un’infrastruttura invisibile che ne determina in modo univoco le caratteristiche e l’agibilità controllata.

Chi è privato della possibilità di stabilire una “connessione” con tale infrastruttura, non “esiste” e, viceversa, tutto quanto lo circonda si riduce a una spettrale città fantasma.

Per riprendere il luminoso pensiero degli impiegati del progresso e sacerdoti della servitù volontaria citati in apertura:

«questi meccanismi di base aprono scenari di innovazione e creatività immensi», visto che «stabilita la connessione, lo smartphone mette a portata di un clic, o meglio di un touch, il “contesto” che riguarda il luogo in cui ci troviamo, lo spessore dell’identità anagrafica di quel luogo, fatto di informazioni, foto, video, recensioni, commenti, dati e creando la possibilità di interazione sociale “connessa” a quel luogo. Questo grazie ai metadati di georeferenziazione delle informazioni […] geolocalizzarsi è la chiave di accesso al contesto che ti circonda».

La fine della città e dello spazio pubblico che essa protegge porta con sé anche la fine della ragione, mettendo a nudo una volta di più che, come ha scritto Hannah Arendt in una lettera a Karl Jaspers nel 1946: «si tenta in modo organizzato di sterminare la nozione di essere umano».

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