«Indiani d’America accampati con le loro tende a pochi passi dalla Casa Bianca. Ma il megaprogetto Dakota Pipeline non si ferma». la Repubblica, 12 marzo 2017 (c.m.c.)
Washington. Alla fine di un lungo sentiero delle lacrime, a duemila e cinquecento chilometri dalla loro terra all’altro capo del tempo e dell’America, Lakota Sioux, Cheyenne, Arapaho, Corvi, Cherokee hanno portato a Washington la loro invincibile sconfitta. Nel gelo di un weekend che li aveva accompagnati dalla tundra delle Grandi Pianure del Nord, hanno tentato l’ultima battaglia contro l’ennesimo stupro che il “Uasìchu”, l’Uomo Bianco, “colui che si prende il grasso e lascia le ossa agli altri” in lingua Lakota, sta compiendo nel corpo della loro terra. Ma sanno che il tubo di acciaio che il nuovo oleodotto pomperà dai giacimenti del Nord Dakota fino a Chicago sotto la terra, i laghi, i ruscelli delle loro riserve si farà, si sta facendo, perché così ha ordinato il Viso Pallido dai Capelli color di Carota che vive nella grande tenda bianca.
Per due giorni, anche sotto un improvviso nevischio che ha stroncato le prime fioriture dei ciliegi giapponesi nel centro della città, gli indiani, guidati dai Lakota Sioux della Standing Rock Reservation in South Dakota, hanno alzato i loro tipì di tela, prima davanti al massiccio palazzo della Posta divenuto oggi un Hotel Trump e poi attorno all’obelisco di marmo dedicato a George Washington. Hanno portato in corteo, nei canyon di cemento e vetro delle strade dei lobbysti, serpentoni di gomma per rappresentare l’oleodotto e per gridare “L’acqua è vita”, quell’acqua che le inevitabili fughe di greggio intossicheranno con foto di paperelle incatramate e di volpi stecchite.
Si sono accampati e hanno danzato con i piumaggi d’onore, lance e tomahawk, a torso nudo davanti alla Casa Bianca, cantando “Trump must go”, se ne deve andare e si sono concessi qualche amara ironia, come Jobeth Brownotter, Lontra Bruna. Indossava uno dei cappellini distribuiti a milioni dalla campagna elettorale di Trump con la scritta “Make America Great Again”, rifacciamo grande l’America, ma trapassato da una freccia, come nei vecchi film western.Ma che cosa può una tenda di tela contro grattacieli di acciaio e cemento? Niente. La Dakota Access Pipeline, che porterà mezzo milione di barili di greggio al giorno dai giacimenti di Bakken ai dintorni di Chicago per mille e 500 chilometri è stata sbloccata immediatamente dopo l’insediamento di Grande Capo Pel di Carota.
Obama ne aveva fermato l’ultimo tratto, quello che perfora la terra della Riserva della Roccia Eretta, ma sapeva che sarebbe stato solo un gesto. Per ordine del nuovo Presidente, il Genio Militare ha rinnovato l’autorizzazione. I bulldozer sono tornati a rivoltare la terra che conserva le ossa degli antenati e lo spirito della loro anima. La Guardia Nazionale e gli sceriffi hanno sloggiato l’ultimo accampamento di Lakota che erano rimasti appesi ai loro stracci nel gelo di febbraio. E la talpa ha ripreso a scavare.
Hanno danzato, ma che cosa può una danza contro un governo che ha scelto, per il secondo, più importante ministero dell’Amministrazione, Rex Tillerson, il boss della Exxon Mobil, un grande sciamano del liquido nero. I leader della marcia, molti dei quali erano donne, si aggrappano a uno dei tanti, effimeri trattati che il governo dei soldati blu firmarono con le nazioni della Grande Prateria a Fort Laramie, nel 1851 e che garantiva anche ai Sioux il controllo delle loro terre in cambio del diritto di passaggio delle carovane dei pionieri e di pochi dollari mai versati, Ma nel 1924, dopo guerre, violazioni spudorate, semi-estinzione dei bisonti che erano la vita delle nazioni di cacciatori nomadi, e rotaie, i diritti territoriali dei nativi furono cancellati in cambio del riconoscimento della cittadinanza americana degli indiani e i tribunali da allora dibattono e decidono che cosa ancora resti di quei trattati ottocenteschi.
Hanno speso duecento mila dollari per organizzare la marcia sulla capitale, partita dai Lakota della Roccia Eretta che sono appena 8 mila, ma che cosa possono quei soldi contro i 3,78 miliardi di dollari investiti da società petrolifere e prestati dalle maggiori banche del mondo, dalla Citi alla Paribas, dalla Wells Fargo alla Société Générale, per costruire l’oleodotto. Per loro si è mossa soltanto la senatrice Democratica del Massachusetts, Elizabeth Warren, che vanta lontane origini Cherokee, ma nei chilometri di cammino fra la stazione di Washington e la Casa Bianca, i pochi turisti dissuasi dal freddo, e i pochissimi washingtoniani, incalliti da ben altre manifestazioni, li guardavano come una curiosità folcloristica.
Hanno pregato, ma che cosa possono le preghiere di qualche superstite del genocidio indiano contro la sete inestinguibile di petrolio che noi abbiamo? Il sogno è l’autonomia energetica, la benzina a poco prezzo, la liberazione degli Stati Uniti dal ricatto dei Paesi produttori, e che importa se qualche Lakota Sioux saltella, se una donna Cheyenne canta contro la Casa Bianca e 131 geologi, ambientalisti, ingegneri avvertono che sicuramente quelle tubature avranno perdite e fughe? Certo non importa a Donald Trump, il Presidente che invoca l’America First, ma si dimentica dei First Americans. Dei primi americani.