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Franco Giordano
Sinistra oggi. Radicali nella società, responsabili in politica
28 Gennaio 2017
Sinistra
“Rifondare il popolo contro ogni tentazione populistica. Rifondare la politica contro ogni tentazione autoreferenziale o settaria. Non è più tempo, a sinistra, di posizioni moderate o rigoriste”. Un breve saggio dell’ex leader del PRC ».

ytali, 28 gennaio 2017 (c.m.c.)

Interrogarsi se sia il degrado del ceto politico (o delle classi dirigenti in generale) la causa dello sfarinarsi di quasi tutti i legami che strutturano la società contemporanea o se sia vero il contrario, è domanda meno oziosa di quanto possa apparire. Perché l’assunzione di uno dei due poli di riflessione induce a comportamenti e a posizioni culturali e persino psicologiche del tutto diverse (anche se, in fondo, complementari).

Chi investe tutta la sua imprenditorialità sulla dimensione separata ed impermeabile della politica rispetto alla sfera drammatica di una società in cui crescono fortemente diseguaglianze sociali e culturali, coglie una parziale verità, ma si attribuisce inopinatamente un compito demiurgico di rappresentazione di sentimenti espressi in forme spesso contraddittorie se non proprio aggressive. Se contro la “casta”, indistintamente definita, tendi a raffigurare una società illibata e priva di pesanti increspature culturali e psicologiche finisci con l’essere travolto da una violenta vandea che rifiuta ogni forma di relazione con i migranti, i diversi ed alimenta scene di conflitti egoistici interni alla stessa società. Non può essere questa una tentazione per qualsiasi ipotesi che si autodefinisca progressista.

Eppure il deficit spaventoso di progettualità e di rappresentanza di un pezzo di ceto politico che fa riferimento a valori vaghi di radicalità progressista tenta questa avventura come aggiramento ad una mancanza di consenso. Ma se impasti temi sociali veri e fondati con egoismi violenti e grevi diventi inconsciamente, e un po’ stupidamente, parte attiva di un collante culturale e politico che è alla base di tutti i movimenti reazionari che stanno animando la scena politica del vecchio continente con esperienze di governo fino a ieri impensabili.

Ma anche fuori dal vecchio continente il populismo approda al governo sconquassando equilibri geopolitici. Trump ha vinto negli Usa con l’annuncio di politiche protezionistiche e di forte arretramento culturale, sociale e civile. Nonostante ciò la presidenza Trump viene salutata in alcuni ambienti di sinistra radicale come la “caduta del muro del liberismo globalizzato” (sarebbe comico se non fosse tragico dipingere così un governo composto da miliardari e finanzieri, da nemici giurati dei diritti delle donne, dei neri, dei gay, dei migranti e di ogni forma di ambientalismo). E se, in Europa, le destre xenofobe, razziste e reazionarie inneggiano coerentemente al nuovo modello di riferimento, anche il M5s saluta con entusiasmo la novità d’oltreoceano.

L’errore strategico

La povertà culturale ed analitica di una critica amplificata alla politica “tout court“, pur avendo spesso conferme da quel mondo, determina un pesante errore strategico non privo di conseguenze. L’eccesso di soggettivismo e politicismo di cui è figlia questa facile scorciatoia oscura colpevolmente un dato che è evidente da qualche decennio: la perdita di potere, di ruolo e di funzioni delle istituzioni a tutti i livelli. In particolar modo delle assemblee elettive in danno degli esecutivi. La globalizzazione, la finanziarizzazione dell’economia, il peso crescente della tecnocrazia hanno svuotato la capacità di incidenza dei processi istituzionali e sottratto ogni forma di capacità alla politica di mutare i destini individuali e collettivi.

“Foglie morte in attesa dell’ultimo refolo di vento di autunno”, così il filosofo Emanuele Severino raffigura i politici lasciando intravedere quasi una vita autonoma della tecnocrazia nei processi di governo del mondo. Con quanta efficacia, però, è facile constatarlo nella polarizzazione della ricchezza in aree sempre più ristrette e con sempre meno legittimazione democratica a fronte di un impoverimento che tocca realtà sociali prima neanche sfiorate dalle varie congiunture economiche.

L’urlo indistinto contro la politica, l’urlo che reclama un cambio salvifico, l’urlo privo di progettualità alternativa e di un blocco sociale coeso di riferimento, alimenta facili illusioni e produce fortissime disillusioni che a loro volta incoraggiano passività e rabbia, depressioni e rivolte individualistiche. Se il problema del permanere della tua condizione di sofferenza è legato ad una rapida sostituzione del ceto politico di governo, l’obiettivo sembra così a portata di mano che quando si realizza e le attese vengono però deluse, il divario tra politica e società diventa una voragine.

I nuovi populismi

La via breve e spesso strumentale del populismo rimbalza sui social con toni apodittici e gravi. Brucia ogni ipotesi di soluzioni alternative e credibili ad una crisi economica e culturale che non ha alcun precedente storico per intensità, forma e durata. Un tempo queste modalità erano appannaggio di forze ristrette. Oggi queste forze, nella crisi perdurante, se non proprio l’agonia, delle vecchie formazioni politiche, hanno consensi sempre più significativi.

La soluzione semplice se pur improbabile di problemi complessi ha un appeal superiore a qualsiasi altra soluzione praticabile. Prima queste modalità erano atteggiamenti estremi di forze estreme spesso nostalgiche di altri periodi storici che narrano di un benessere antico il più delle volte mai esistito. Oggi il populismo è di sinistra, di destra e di…centro. È di opposizione e di governo.

Magari con forme di diversa intensità. Al populismo ci si oppone spesso con un “embrassons-nous” del sistema politico che si rinserra in una sorta di cittadella separata in un meccanismo di autodifesa che viene percepito come tutela di facili prerogative e antichi privilegi. Ovviamente questo atteggiamento non fa che alimentare il fuoco del rancore, della rabbia, fino al sentimento ingovernabile dell’odio.

La complessità della crisi

La complicazione strutturale del nostro tempo è determinata dal fatto che il degrado della società e l’irrilevanza della politica si intrecciano e si autoalimentano reciprocamente. Se non si produce un’analisi unitaria si finisce con il rincorrere vecchie antinomie tra autonomia del sociale ed autonomia del politico, entrambe deprivate di una dimensione vitale positiva e fortemente deteriorate. Qui siamo. Il paese che ha conosciuto il più alto livello di socializzazione e partecipazione politica, l’Italia, è stretto tra opzioni liberiste di natura tecnocratica e varie forme di populismo.

Il paese che, negli anni Settanta, ha conosciuto il più alto livello di conflitto sociale organizzato e, forse, la più importante sperimentazione di modelli sociali alternativi, vive oggi la dissoluzione di ogni forma di legame sociale e solidaristico. Dal conflitto collettivo ispirato alla giustizia sociale all’invidia di tipo individualistico. Dalla consapevolezza di essere parte di un grande movimento di massa con una idea di trasformazione o trascendenza della realtà al vuoto di senso esasperato che si cristallizza nel tempo presente. L’Italia, più che altri paesi europei, conosce la distruzione se non la dissoluzione dei corpi intermedi della società.

“L’inevitabile non accade mai. L’inatteso sempre”.

Pare che la dissoluzione liquida della società descritta tante volte da Bauman trovi qui una applicazione particolarmente favorevole. Ma di liquido ci sono solo i soggetti organizzati: partiti, associazioni ed in parte anche sindacati. Remo Bodei in una recente intervista parla infatti di un ritorno alla materialità dura determinato dalla crisi economica, dalle crescenti disparità e dalle sacche nuove e vaste de povertà. È singolare rilevare che in una delle fasi di maggiore difficoltà del capitalismo (forse la più critica dalla sua nascita) nel governare le società siano scomparsi i suoi antagonisti. Il capitalismo in crisi travolge i suoi avversari. Eppure non convince, anzi si disaccoppia dalle forme di democrazia liberali finora sperimentate in occidente disarmando e rendendo inutile la politica.

Possiamo affermare con buone ragioni che questo liberismo contemporaneo sia profondamente illiberale. A ben guardare sta mutando profondamente la dimensione dell’umano. C’è il capo e ci sono le folle. Un clima culturale e psicologico non dissimile dai periodi inquietanti dei totalitarismi del secolo scorso. Ma ancora Bodei osserva giustamente che tutto è cambiato. Si è chiusa un’era apertasi con la rivoluzione francese. C’è una copiosa letteratura che disvela l’allarmante prospettiva che ci attende, ma a differenza del secolo scorso la funzione intellettuale non orienta grandi masse. Torna la nota profezia di Keynes: ” l’inevitabile non accade mai. L’inatteso sempre”.

Il fattore umano

“L’inatteso”, nelle relazioni umane, accentua sentimenti estremi, esaspera competizioni e narcisismi. Trasforma il bisogno di giustizia sociale in invidia e rancore. Sedimenta sacche di odio che sfociano in episodi sempre più diffusi di violenza improvvisa e priva di una spiegazione razionale. Il narcisismo è sicuramente la malattia del nostro tempo. C’è un narcisismo manifesto ed esibito nelle competizioni dell’apparire. C’è un più diffuso narcisismo che possiamo definire “represso”. È quello di chi aspira a godere di uno status che non potrà mai raggiungere.

Una potente deprivazione che lacera gli individui lasciandoli macerare in una rabbia interiore a stento tenuta a freno da meccanismi di controllo che impediscono sentimenti e legami autentici. Una deprivazione di beni materiali ed emotivi che vengono assurti a beni irrinunciabili anche se spesso inconfessabili. Il rapporto del capo con le folle imprigiona gli individui in un rapporto muto ed unidirezionale.

È un rapporto di tipo adattivo privo di elementi di criticità. È una sorta di identificazione ed induce ad atteggiamenti compiacenti al volere del modello di riferimento. Atteggiamenti vissuti in condizione di solitudine rancorosa. È una forma di relazione di tipo verticale che impedisce la dimensione orizzontale del legame sociale.

La perdita della libertà

Di questo tipo di relazione è utile indagare la perdita di libertà dei soggetti coinvolti. Nel suo ultimo libro Il coraggio di essere liberi il teologo Vito Mancuso utilizza efficacemente la metafora della professione dell’attore che usa tante maschere e recita su testi di cui non è evidentemente l’autore. « L’attore parla obbedendo ad un copione… Né i movimenti sono naturali, ma costruiti, artefatti». È gratificato dalla sua capacità tecnica se apprezzata da chi giudica la sua prestazione. Ognuno di noi tenta di recitare sui diversi palcoscenici dell’esistenza. Tutte le nostre parole, il linguaggio corporeo, le movenze sono finalizzati al compiacimento di un regista esterno.

Per dare un senso al vuoto esistenziale del tempo presente lo si riempie con una trama comportamentale dettata da un modello esterno mitizzato. Non c’è possibilità di entrare in conflitto con l’altro da te, affrontare l’incertezza della relazione o subire le possibili ferite narcisistiche. L’altro è potenzialmente e tendenzialmente un competitore se non proprio un nemico. Il rapporto fideistico con il capo sottrae anche lo spazio di una riflessione sul sé e su quella parte del sè in cui abitano le “ombre” di cui ha tante volte parlato Jung. Si finisce con l’essere soli e contemporaneamente fuori da sè. Si placa così, artificialmente, un senso insopportabile di vuoto. È evidente che in questo contesto perdono senso e significato valori come libertà ed uguaglianza. Libertà da chi? Non certo dal capo. Uguaglianza con chi? Non certo con l’altro.

Solidarietà

Anche termini come fratellanza e solidarietà, valori propri non solo di un mondo laico ma anche cattolico e religioso hanno perso peso. Riappaiono in congiunture ed eventi straordinari, ma se la congiuntura e l’evento si protraggono nel tempo questi sentimenti rapidamente rifluiscono per lasciare il campo ad un sentimento di tipo individualistico ed utilitaristico. Il termine solidarietà rischia di essere una parola sempre più vuota se non viene praticata e vissuta in una dimensione concreta.

La politica che proclama solidarietà non viene creduta perché spesso non rappresenta un mondo o una comunità che la praticano. E quella parola si rovescia quasi fosse un disvalore propagandistico. Quella parola continua ad avere un senso in aree di volontariato ed associazionismo sia laico che religioso. Vale a dire in mondi vitali che hanno dato alternative concrete al senso di vuoto, di ingiustizia, di precarietà esistenziale provando a mettere in discussione sè stessi nella relazione con l’altro.

Papa Francesco ha proposto questa dimensione originaria della fede per cercare di recuperare una scissione evidente tra la Chiesa e la società. Processo non dissimile dalla divaricazione tra politica e società. Ma questi sforzi incontrano resistenze molto grandi. Si può evidenziare un conflitto aspro tra le gerarchie ecclesiastiche, ma anche, problema più serio, una resistenza o, nel migliore dei casi, una disabitudine a praticare la solidarietà concreta in tante strutture territoriali fino a disattendere apertamente le indicazioni del Pontefice.

Nel pieno della tragedia dei migranti e dei profughi la proposta di Papa Francesco di aprire chiese e sedi per dare loro ricovero è stata straordinariamente importante. Non a caso è stata dileggiata dai capi razzisti e da coloro che osannano i muri alzati di tutta Europa. Ma questa indicazione ha incontrato inerzie e ostilità anche all’interno della Chiesa. Anche il mondo cattolico è, dunque, attraversato da questa crisi di senso e di vuoto delle società contemporanee.

Radicalità nella società e responsabilità in politica

Il tema cogente è quello di provare a ricostruire legami, pratiche sociali, mutualismi. Per semplificare si potrebbe dire che occorrerebbero comportamenti determinati e coraggiosi nella società per sradicare convinzioni incancrenite o atteggiamenti narcisistici e cinici. Occorrerebbe investire personalmente e collettivamente nella costruzione di legami di tipo solidaristico e mutualistico. Ricostruire in forme moderne e contemporanee luoghi in cui far nascere assistenza, protezione sociale, scambio culturale ed emotivo, socialità e gratuità. Ma questi spazi dovrebbero avvalersi di una politica compatibile con la loro crescita. Una politica responsabile e di governo che si lascia contaminare da queste pratiche sociali.

Un tempo avremmo chiamato questi luoghi con un termine gramsciano “casematte”. Una politica capace di esprimere anche compromessi, sane mediazioni con l’intento di facilitare il diffondersi di queste esperienze di tipo comunitario. Radicali nella società e responsabili in politica. Solo così si può favorire un processo molecolare di trasformazione sociale e culturale.

Rifondare il popolo contro ogni tentazione populistica. Rifondare la politica contro ogni tentazione autoreferenziale o settaria. Non è più tempo, a sinistra, di posizioni moderate o rigoriste. Così si fa solo il gioco delle destre. Ma non è più tempo, a sinistra, di posizioni estremistiche e propagandistiche. Servono solo a riprodurre ceti politici mediocri e parassitari privi di qualsiasi relazione sociale. Spazio e tempo si sono stretti come una morsa.

Serve una nuova teoria e nuove idee credibili di governo della società. Ma serve un grande coraggio nel mettere in discussione unilateralmente sè stessi per incontrare l’altro/a e sostituire pazientemente la tela stracciata della vecchia società in un nuovo ordito in cui cominciano a prendere vita e senso parole come uguaglianza, libertà, fratellanza/sorellanza, solidarietà.

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