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Giuseppe D?Avanzo
Sicurezza e serietà
7 Settembre 2007
Articoli del 2007
Davvero rivelatrice la questione della “sicurezza”. Testimonia che di serietà da noi ce n’è poca. La Repubblica, 7 settembre 2007

Prima che un Paese normale, dovremmo essere in grado di diventare – ne è una pre-condizione – un Paese serio, e serio vuol dire capace, responsabile, attendibile. Può essere utile affrontare alla luce di queste categorie – responsabilità, capacità, attendibilità – le iniziative che il governo progetta di contrapporre a una diffusa ondata di panico morale provocata da quella che viene definita «microcriminalità» e concentrata, in quest’occasione, contro i miserabili che occupano spazi pubblici – lavavetri, vagabondi, mendicanti – e il piccolo mondo criminale che vende beni e servizi alla società "per bene": prostitute, piccoli spacciatori di droga. Per necessità semplificatoria, si farà a meno di quel che, nel nuovo senso comune penale, il governo cinicamente giudica superfluo. Per un momento, allora, lasciamo in un canto qualche questione pur assai essenziale: come, ad esempio, che le politiche pubbliche in tema di sicurezza ridisegnano il profilo stesso della società (e varrebbe la pena discuterne, no?); che molte esperienze hanno messo in dubbio l’efficacia delle politiche criminali nel controllo dei conflitti e dei fenomeni illeciti; che il senso di insicurezza non è necessariamente connesso all’esistenza di pericoli "concreti", ma spesso ha a che fare con il genere, l’età, l’esperienza di vita, la familiarità con l’ambiente in cui si vive, il senso di appartenenza a una comunità.

Via tutto questo. E via (anche se magari leggendolo scopriremmo che l’utopista era molto pragmatico al punto da sostenere che «la grandezza delle pene deve essere relativa allo stato della nazione»), via pure la lezione di Cesare Beccarla che credeva gli uomini liberi e uguali: in fondo nei think tanks (Heritage Foundation, Manhattan Institute), che furono la fucina della ragione penale dei neoconservatori, avevano già in odio «la perversione dell’ideale ugualitario apparso con la Rivoluzione francese». Via questa roba da filosofi. Affidiamoci soltanto al programma del governo. Non al programma originario: quello, prevedeva il carcere solo per i reati più gravi e mai il carcere per violazione di disposizioni amministrative (come sono le ordinanze di un sindaco). Occupiamoci soltanto del disegno annunciato, ex novo. Nel ripensamento affiora subito un primo indizio di inattendibilità perché non c’è risposta alla domanda: che cosa è cambiato rispetto a un anno fa? Pare niente, se il ministro dell’Interno scrive al Corriere della Sera (30 agosto): «Troppo spesso la politica costruisce polemiche su uno stato della sicurezza che amplificano stati d’animo che non possono valere come giudizi generali. I dati ci dicono un’altra cosa».

Epperò, senza un’esplicita ragione, Giuliano Amato annuncia «tolleranza zero», «una lotta all’illegalità così come fece Rudolph Giuliani da sindaco di New York». La mossa svela, quanto meno, un’inversione di rotta e quindi un’incapacità nelle scelte del passato. Per farla corta. Ci sono, in competizione tra loro, due modi di fare polizia: «polizia intensiva» (a «tolleranza zero») e «polizia comunitaria» (o community policing o «polizia di prossimità»). Fino ad oggi in modo condiviso e inaugurata addirittura dal centro-destra di Berlusconi, la nostra scelta era caduta sulla «polizia di prossimità» che ha il suo «caso di scuola» a San Diego, negli stessi anni del governo newyorchese di Giuliani. In tre anni in quella città della California, con l’aumento degli effettivi di polizia di solo il 6 per cento, il numero degli arresti diminuì del 15 per cento. Al contrario, New York - che nelle classifiche della criminalità dell’Fbi in quel 1993 (Giuliani diventa sindaco) si collocava all’87esimo posto su 107 città (non era poi tanto malmessa) - sceglie il metodo della «polizia intensiva» che fece aumentare gli arresti del 24 per cento (314.292 persone soltanto nel 1996); i poliziotti di 12 mila unità; il budget della polizia del 40 per cento (2,6 miliardi di dollari, un importo quattro volte superiore ai fondi concessi agli ospedali pubblici) con un’opzione che provocò il taglio di un terzo dei finanziamenti ai servizi sociali della città e il licenziamento di 8.000 addetti. Con il nuovo indirizzo di «tolleranza zero» fa capolino una traccia di inattendibilità. Anche fingendo di non sapere che la «polizia intensiva» non colpisce singoli delinquenti, ma alcuni gruppi sociali, e per di più alla lunga non è efficace come si crede, dove sono i soldi? Le casse dello Stato permettono di far crescere del 10/20/30 per cento le risorse delle polizie centrali e comunali? Troverà consenso, in caso contrario, una manovra che, per assicurare quei finanziamenti, riduca nelle città del 10/20/30 per cento il bugdet dei servizi sociali, già stressati dalla "cura Berlusconi"? Contro queste difficoltà si è già, peraltro, scontrato il centro-sinistra quando, nel 1999, il governo D’Alema, dopo la consueta ondata di panico provocata da alcuni assassinii a Milano, adottò una serie di misure repressive (criminalizzazione di alcuni illeciti minori, poteri rafforzati per la polizia, pugno di ferro nelle carceri) che non mutarono di un pelo né la percezione della sicurezza né la sicurezza (il centro-sinistra perse le elezioni). L’oblio di quell’esperienza fallimentare può essere un indizio di irresponsabilità. D’incapacità tocca invece discutere, quando si affronta quel che, per Amato, è «uno dei maggiori problemi di sicurezza nel nostro Paese, in questo momento»: la criminalità rumena.

La leva per scardinarla c’è. Dice Amato: «Ogni cittadino comunitario (i rumeni lo sono) può registrarsi all’anagrafe di un altro Paese solo se ha i mezzi leciti di sostentamento. Se non li ha, va a casa». Quel che Amato non dice è che il governo italiano (inattendibilità), per rendere esecutiva questa norma europea (direttiva numero 38), deve definire qual è la soglia minima richiesta al cittadino immigrato. Quanto deve guadagnare per definirsi «in grado di sostenersi»? 500 euro al mese? 800? L’esecutivo, in un anno, non ne è venuto a capo (incapacità). Sarà per questo che, molto sottilmente, il ministro dell’Interno si defila e chiama in causa il ministro della Giustizia come ha fatto a Telese Terme, il 29 agosto: «Quando uno viene arrestato poi non te lo puoi ritrovare davanti dopo tre mesi. Questo si chiama certezza della pena. E questo compito tocca al ministro della Giustizia».

La certezza della pena è una litania, buona per tutti gli usi, a destra come a sinistra, ma semanticamente povera. Non costa niente evocarla, ma lascia le cose come sono nel congegno - il processo - che dovrebbe assicurarla. Ora, in Italia, il processo è inefficiente e interminabile. Ha incrociato e moltiplicato nel tempo i difetti di tutti i modelli a disposizione. E’ un ordigno perverso e maligno che, al più sanziona prima dell’accertamento e, quando accerta le responsabilità, non riesce a punirle. Lasciamo cadere allora quelle iniziative che vogliono ripristinare antichi reati già cancellati dal centro-sinistra (i mestieri girovaghi) o già censurati come illegittimi dalla Corte Costituzionale (è il caso del reato di mendicità). Occupiamoci soltanto del processo, unico padre possibile dell’effettività della pena. Per rianimarlo ci sarebbe voluto un Giustiniano e una coesa volontà politica e non un Parlamento impotente dinanzi alla pressioni delle lobby dei magistrati, dei politici, degli avvocati. Il ministro di Giustizia, da buon democristiano, si è mosso come ha potuto con l’ambizione di chiudere i tempi del giudizio in cinque anni. Ha anticipato qualche proposta già pronta. Il consiglio dei ministri l’ha approvata. Il disegno di legge è incagliato da cinque mesi alla Camera dove pure il governo può contare su una larga maggioranza (incapacità). Quel che si annuncia - l’inversione dell’onere della motivazione (il giudice deve motivare perché scarcera non perché «carcera»), un processo "speciale" per furti, rapine, stupri etc, nuove regole di carcere preventivo - renderà soltanto quel ferro più arrugginito, storto, inutilizzabile di quanto già oggi non sia (irresponsabilità). Per tenere in carcere chi lo merita e ridurre il danno, si poteva correre ai ripari con una banale tecnologia applicando le leggi che già ci sono. Oggi capita che, condannato a Milano, un imputato risulta incensurato perché il giudice che decide se tenerlo in carcere fin dal primo giudizio (come è possibile) non sa che quello è già stato condannato a Pescara, magari per lo stesso reato. Sarebbe necessario un casellario giudiziario aggiornato e una banca dati efficiente, ma non ci sono né alcuno sembra ci stia lavorando (incapacità).

Già c’è - pare - materia sufficiente per dire della serietà della discussione di questi giorni, ma c’è un ultimo, definitivo argomento: il Parlamento da oggi a fine anno non ha sedute a disposizione per approvare il "progetto sicurezza" del governo. Il Senato, per i prossimi 45 giorni, si occuperà di Finanziaria. Che, per i successivi trenta, sarà all’ordine del giorno della Camera per poi ritornare al Senato, prima delle ferie natalizie. In ogni caso se il "pacchetto" prevede anche soltanto una lira di spesa in più non può essere discusso durante la sessione di bilancio. Il governo potrebbe muoversi con un decreto legge, è vero, ma è difficile che voglia tirarsi addosso un’altra rogna, dopo le difficili mediazioni in programma per tagli, tasse e tesoretto. Per sapere della serietà bisognerà dunque aspettare l’anno prossimo.

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