La domanda è molto banale, nel senso che è un po' nell'animo di tutti. È la domanda del cinquantenario della grande crisi: ci sarà o no un nuovo 1929?
Mi rendo conto che il 1929, per i suoi aspetti vistosi e anche folcloristici, eserciti grandi suggestioni: il crollo di borsa, la gente che si buttava di sotto dalle finestre dei grattacieli. Galbraith ha dimostrato poi che quasi nessuno si era buttato giù dai grattacieli, ma è vero che dopo il '29 i vetri dei grattacieli sono fissi. Ma è ancora più vero che i capitalisti vittime del crollo di borsa, in un modo o nell'altro, se la sono cavata mentre a star male, sul serio e a lungo, sono state le masse rurali e i lavoratori.
Sul '29 quindi molta esagerazione, oggi anche di tipo celebrativo?
Ripeto: gli aspetti vistosi dei '29 spiegano molte enfasi degli attuali interrogativi, ma quel che veramente mi sorprende, mi appare ingenuo nella domanda «ci sarà un nuovo 1929?» è che nel '29 ci siamo già, ci viviamo dentro. Tutti gli aspetti patologici del '29 fanno parte della nostra esperienza: non nelle forme catastrofiche di allora, ma in modo endemico, nella forma di un ristagno acquisito nella nostra coscienza, al punto che neppure ce ne accorgiamo.
Questa non è un'esagerazione di riduttivismo?
No. Guardiamo ai fatti. La disoccupazione per esempio. L'Ocse per il 1980 prevede 18 milioni di disoccupati nei paesi industrializzati: questo è 1929. E senza parlare della situazione negli altri paesi: uno studio della Banca mondiale, sullo sviluppo nel mondo nel 1979, valuta che vi siano tra i 600 e i 700 milioni di uomini che vivono in condizione di «assoluta povertà». «Assoluta povertà», secondo la definizione della stessa banca, significa uno stato di pauperismo nel quale gli individui nascono già tarati per condizioni di deperimento e sottoalimentazione dei genitori. Questa povertà diffusa fa perfettamente riscontro con le condizioni di grande povertà esistenti allora negli Usa.
Questa diffusa ed enorme povertà dei paesi non industrializzati forse nel '29 non c'era o era minore, ma certamente non era «emergente», non assumeva la rilevanza che ha oggi.
Il '29 è fra noi, non c'è bisogno di aspettarselo. Faccio altri due esempi: la distribuzione dei prodotti agricoli e l'andamento delle borse. Tutti ricordiamo i romanzi americani («Furore» per esempio) con le violente e drammatiche descrizioni di distruzione di prodotti agricoli, la sepoltura dei maiali nella calce per esempio. Ma tutto questo non è forse la normale politica agraria della Cee? Solo che ci siamo abituati, non ci sorprendiamo. Io però rimango ancora esterefatto quando sento un ministro dell'agricoltura dichiararsi soddisfatto perché quest'anno la quota di frutta distrutta è un po' minore di quella dell'anno precedente. Questa è la normalità mondiale, proprio quando in tutti i parlamenti si parla tanto di fame nel mondo. Ma consideri anche il tanto esaltato crollo di borsa. Forse che i giornali di questi ultimi anni non ci informano di continui crolli con conseguenti distruzioni di risparmi?
Un febbrone può essere meno dannoso di una febbre bassa e duratura?
Esattamente ed è questo che mi induce a ribadire che viviamo un 1929 allo stato endemico.
Ma tutti siamo più assuefatti?
L'adattamento, l'assuefazione sono propri del comportamento umano. Anche le imprese spaziali non ci impressionano più. Però, dal punto di vista complessivo, adattamento e assuefazione significano deterioramento: abbiamo perduto anche quegli anticorpi, quelle capacità reattive che ci aiutavano ad affrontare la malattia. Come non ricordare che già, nel 1936, D.H. Robertson ci ammoniva a considerare che «nascosto tra le spire del serpente ciclico» poteva esserci «un nemico ancora più insidioso», «una specie di verme penetrato al centro delle basi istituzionali e psicologiche della nostra società e che ingrassa su quello stesso accrescimento della ricchezza, che essa cerca inutilmente di impedire»? (...)
(l'intervista,riprodotta in parte, è del novembre 1979)