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Fabrizio Bottini
Sfigati
26 Gennaio 2012
Scritti ricevuti
La sparata di pessimo gusto e un po’ classista del sottosegretario al welfare, sui laureandi di lungo corso, ha suscitato varie reazioni: qualche nota aggiuntiva

I giornali pubblicano in questi giorni, anche con una certa evidenza, alcuni particolari sulla fulminea carriera accademica del signor Michel Martone, baby-ordinario prodigio, che aiutano sicuramente a spiegare l’origine della sua indebita famigerata uscita sui cosiddetti sfigati che si laureano, orrore, a 28 anni. Ma in realtà non c’è niente di particolare nel curriculum del sottosegretario, almeno al punto da distinguerlo dalla maggior parte dei suoi colleghi: il percorso sostanzialmente esterno e parallelo della sua formazione, in pratica familiare e autogestita, la cooptazione pilotata sopra e oltre ogni logica o criterio obiettivo, il conseguente consolidarsi di un’idea di sé che produce, quasi automaticamente, quel sottile disprezzo. La cosa particolare, semmai, è che poi l’ha espresso ad alta voce.

Invece di prendersela col personaggio in sé, però, forse sarebbe più utile pensare al contesto generale che l’ha prodotto, magari limitandosi a qualche aspetto specifico, che a mio modesto parere rinvia comunque a un tema generale: sono trascorse generazioni da quando, a parole, siamo passati da una università di élite a una università di massa, ma nessuno sembra aver mosso un dito per adeguarsi. Martone, perfetto esemplare sfornato dal sistema che non dovrebbe esistere più da decenni (e che invece è l’unico legittimato a riprodursi coerentemente) ha sbadatamente urlato ai quattro venti ciò che di solito i suoi colleghi si dicono a voce più bassa in riunione, in commissione, o anche al bar, se non ci sono orecchie troppo indiscrete. Ovvero che l’università di élite è viva, vegeta, unica espressione culturale alta della nostra società, e la cosiddetta università di massa sta lì solo ed esclusivamente a far massa, appunto.

Del resto, perché ci si iscrive, all’università? La risposta di Martone è adamantina, e in linea con certe orrende idee già ventilate all’epoca del ministro (brrr!) Letizia Moratti. Ovvero si studia per migliorare le possibilità di carriera, chi non ce la può fare in questo meglio che impari a tirare di lima, o di scopino. Dimenticatevi, se mai ci avete pensato, se mai ne avete discusso, tutte quelle sciocchezze sui processi di formazione permanente spalmata su parecchi anni, anche discontinua nel tempo, anche mescolata nei temi, negli obiettivi, nelle discipline. Dimenticatevi il ruolo che l’università può svolgere e di fatto svolge eccome (lo dicono ad esempio i documenti ufficiali del programma Erasmus, fra tutti) nel costruire cittadinanza, democrazia, allargare e articolare il vetusto concetto di “classe dirigente”. Macché: l’autista guadagna dieci, l’ingegnere arriva a cento, se hai un MBA magari schizzi a mille. Tutto qui.

In questo caso gli articoli dei giornali sul concorso da professore ordinario di Martone aiutano davvero a capire. L’obiettivo, manco stessimo dentro alla sceneggiatura di Highlander, è vincere, vincere, ne resterà solo uno, affermarsi ad ogni costo. E non farlo, si badi bene, secondo il criterio che in teoria lì più o meno dovrebbe imperare (il contributo al progresso della scienza, comunque lo si voglia considerare), ma in una logica lobbistica e bottegaia da consiglio di amministrazione qualunque. Conta naturalmente il pezzo di carta, ma il resto è tutto azione esterna e parallela: il giovane è immaturo? Si farà, si farà! Garantisce la famiglia. E se questa famiglia, anche in senso allargato, cooptativo, putativo, non c’è o non ha forza sufficiente, allora si: sei uno sfigato. Non sai stare al tuo posto nel sistema delle caste che da millenni tutto domina. Forse sta qui, diciamo anche qui, il senso della parola “casta” tanto di moda oggi.

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