A proposito di "città resiliente". La soluzione non è nell'imparare a resistere al danno, ma nell'impedirlo. Partiamo dal "diritto alla salute" per risanare il territorio. Così evitiamo anche che il "fare" si traduca nell'"affare". Il manifesto, 18 dicembre 2013
Nel linguaggio comune i disastri ambientali sono espressi come se fossero delle malattie da curare o da prevenire. Quando si dice «cura del territorio» si intende riferirsi ad un luogo fisico idrogeologicamente ammalato. L’Anci scopre la «resilienza» (la capacità dei metalli di resistere agli urti) e scrive un decalogo per invitare le città a organizzarsi contro gli eventi avversi. 6663 comuni sono a rischio idrogeologico. I retori della politica nei talk show tradiscono la loro cattiva coscienza: «Dobbiamo partire dai problemi del paese», e subito dopo immancabilmente il passaggio sul «fare»: «Basta con le chiacchiere abbiamo bisogni di fatti».
Travolti dall’ineluttabile, il «fare» si trasforma in «affare» come con il terremoto dell’Aquila, l’Ilva di Taranto, la «terra dei fuochi». L’affare è tanto la cura del territorio malato quanto tutto quanto lo fa ammalare. Dipende. Il territorio ammalato, scrivono i giornali, è un affare che distrugge altri affari. La «terra dei fuochi» causa il calo del consumo della mozzarella Dop. Si tratta di «mettere in sicurezza il territorio» dice il consorzio allarmato. Curare il territorio o curare le persone pone sempre la stessa eterna questione dei finanziamenti… altri affari.
Ma si può curare il territorio senza curare le persone? Si possono curare le persone senza emanciparle? E si possono emancipare le persone senza liberarle dalle oppressioni? E si possono liberare le persone dalle oppressioni senza che valgano qualcosa? Ma siamo proprio sicuri che dobbiamo partire dai «problemi»? Siamo proprio sicuri che dobbiamo «fare» senza emancipare? Siamo sicuri che la strada degli affari prima ancora che quella dei diritti sia la strategia giusta?
Il mio dubbio, lo confesso, non è tanto metodologico, ma estetico, perché il discorso dell’emancipazione della persona oggi nello stato in cui si trova la sinistra, sembra un rottame di altri tempi. Eppure nel nostro paese l’unica vera importante esperienza di salute è coincisa con l’ideale di emancipazione dell’uomo, cioè di liberazione del soggetto dagli asservimenti, dallo sfruttamento, dalle discriminazioni. Un tempo la salute nei luoghi di lavoro coincideva con la riorganizzazione della fabbrica, quella della donna con l’emancipazione dalle discriminazioni, quella mentale con la lotta contro le istituzioni totali, quella dei diversamente abili con il rifiuto dell’esclusione sociale, e quella dell’anziano con il diritto a non essere sradicati, e infine quella del bambino non più visto come «prodotto concepito», ma come soggetto evolutivo.
Questa lezione la considero, a certe condizioni, molto attuale. Il suo nucleo è profondamente umanistico ed era quello che Kant non Marx avrebbe definito un «imperativo morale categorico»: la salute non è negoziabile e men che mai monetizzabile perché l’idea di diritto e di persona non è negoziabile né monetizzabile. Oggi se pensiamo all’Ilva in ragione di una discutibile «realpolitik» l’imperativo categorico è cambiato: l’art 32 è negoziabile e monetizzabile perché le persone e il territorio, nei contesti ostili al lavoro, sono negoziabili e monetizzabili fino alle estreme conseguenze.
Anche la sinistra crede di poter «risolvere problemi senza emancipare» vale a dire di poter «curare» il «problema» dello schiavo senza emanciparlo dalla «condizione» di schiavitù. Tra le tante schiavitù, oltre quella della disoccupazione giovanile, della deindustrializzazione, della mancanza di investimenti, quella più odiosa di tutte è la catastrofe privata del cancro, che potrebbe essere evitata a milioni di persone ma che non lo è in ragione dei nuovi imperativi economici della realpolitik. Ma i problemi che la realpolitik vorrebbe risolvere, fuori da un qualsiasi ideale di emancipazione sembrano ribellarsi fino a diventare quasi irrisolvibili. Bisognebbe «fare» questo, quello, quell’altro ecc. E’ a questo punto che avviene l’abbraccio tra realpolitik e fatalità. In Campania, nella terra del «biocidio», per «fatalità» l’incidenza dei tumori cresce come a Taranto, in misura maggiore rispetto alle medie già altissime del paese, e sempre per «fatalità» i tempi di attesa per la chemioterapia mediamente sono di due mesi e mezzo. La Campania, terra scaramantica è il paradigma della falsa fatalità, essa dimostra che fuori da un progetto di emancipazione si sfaldano le garanzie sociali, si taglia sulla sanità, si corrompono i diritti, si abbandonano le persone al loro destino. Ma se «inciampare nei problemi», come dicono i popperiani retard della politica, è un falso fatalismo, allora vuol dire che senza emancipazione si muore e basta e che la realpolitik si dovrebbe assumere le proprie responsabilità.
Nel nostro Paese, dice l’Ocse la spesa è calata negli ultimi anni del 2.4%, ma se i malati aumentano chi ha pagato questa riduzione? E in che modo? Curare il territorio costa quanto curare le persone, ma allora, chiedo soprattutto alla sinistra, se la ricchezza di un paese non è solo Pil ma anche salute, cioè emancipazione, perché non si produce emancipazione per produrre ricchezza sapendo che producendo emancipazione riduco l’incidenza della spesa sanitaria sul Pil? Quindi la domanda secca è: l’art 32 (il diritto alla salute) è o no un ideale di emancipazione? Non ritengo che l’ideale di emancipazione sia fallito e neanche che sia incompiuto, penso solo che l’art 32 debba essere ricontestualizzato in un nuovo progetto di emancipazione e in luogo della realpolitik dare voce ad un nuovo riformismo.