Quante storie, con i nomi, i tempi, le frasi e gli esiti giusti non potrete conoscere mai, se dovesse essere approvata la legge sulle intercettazioni che disciplina anche il diritto di cronaca. Diciamo meglio, che cancella il dovere della cronaca e il diritto del cittadino ad essere informato. Che cosa ha imposto il governo alla sua docile maggioranza?
Con un tratto di penna ha deciso che il regime che oggi regola gli atti giudiziari coperti dal segreto si estenda anche agli atti non più coperti dal segreto. Il governo vuole che non si scriva un rigo fino al termine dell’udienza preliminare (accusa e difesa, con i loro argomenti, dinanzi a un giudice terzo). Si potrà sapere che un pubblico ministero senza nome sta accertando che a Roma le sentenze si vendevano all’incanto. Non si potrà dar conto delle fonti di prova e scrivere che il corruttore di toghe si chiama Cesare Previti e si è messo in testa addirittura di fare il ministro di giustizia. Si potrà scrivere che qualcosa non torna nei bond di una società quotata in Borsa e un’innominata toga se ne sta occupando, ma non si potrà dire del pozzo nero che ha inghiottito i modesti investimenti di migliaia di piccoli risparmiatori che hanno avuto fiducia nelle banche e in Parmalat. Si potrà dar conto di un gestore telefonico che ha "schedato" illegalmente migliaia di persone. Non si potrà raccontare che il presidente della Telecom Marco Tronchetti Provera si è lasciato ingrullire, povero ingenuo, dal capo della sua sicurezza, Giuliano Tavaroli. Né tantomeno si potranno elencare i nomi degli "spiati". Lo si potrà fare soltanto a udienza preliminare conclusa (forse). Con i tempi attuali dopo quattro o sei anni. In alcuni patologici casi, dopo dieci.
La pubblica opinione dovrà attendere, anche se quei protagonisti sono personaggi pubblici che chiedono fiducia al Paese per rappresentare chi vota e governare il Paese o amministratori pubblici e privati a cui è stata affidata la nostra salute, i nostri risparmi, la nostra vita. È inutile tediarvi con le tecnicalità. Qui basta forse dire che finora ce la siamo cavata muovendoci lungo il sentiero stretto di un articolo della procedura penale, il 329: «Gli atti d’indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria sono coperti dal segreto fino a quando l’´imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari». Come abbiamo scritto e ripetuto spesso, in questo varco hanno lavorato le cronache. Sarebbe uno sciocco errore negare gli abusi, gli eccessi, la smoderatezza in cui pure è caduto il giornalismo italiano. Ma, se si rispettano i confini dell’articolo 329, si possono tenere insieme i tre diritti che il dovere professionale del giornalista è chiamato a tutelare: il diritto della pubblica opinione a essere informata; il diritto dello Stato a non vedere compromessa l’indagine; il diritto dell’imputato a difendersi e a non essere considerato colpevole fino a sentenza.
Nel triangolo di questi tre diritti, il giornalista può fare con correttezza il suo mestiere, proporre al lettore le fonti di prova raccolte dall’accusa e gli argomenti della difesa, valutare l’interesse pubblico di quelle storie. Perché non ci sono soltanto responsabilità penali da illuminare in questi affari. Spesso diventano cronache del potere tout court, come è apparso evidente nel racconto dei maneggi della loggia massonica di Licio Gelli; della fortuna della mafia siciliana o dei traffici di Tangentopoli, delle imprese di chirurghi più attenti al denaro che non al malato e alla malattia. Quelle cronache sono un osservatorio che permette di vedere da vicino come funzionano i poteri, lo Stato, i controlli, le autorità, la società. Svelano quale tenuta ha per tutti, e soprattutto per coloro che svolgono funzioni pubbliche, il rispetto delle regole. Indicano spesso problemi che impongono nuove soluzioni. L’incontro ravvicinato con le opacità del potere ha in qualche caso convinto il giornalismo ad andare oltre i confini del codice penale violando il segreto. È il suo mestiere, piaccia o non piaccia. Perché non c’è nessuna ragione accettabile e decente per non pubblicare documenti che raccontano alla pubblica opinione - è il caso di un governatore della Banca d’Italia - come un’autorità di vigilanza, indipendente e "terza", protegge (o non protegge) il risparmio e il mercato.
Naturalmente violare la legge, anche se in nome di un dovere professionale, significa accettarne le conseguenze. È proprio sulle conseguenze di violazioni (finora comunemente accettate) che la legge del governo lascia cadere un maglio sulla libertà di stampa. È stato già raccontato da Repubblica che Berlusconi abbia sorriso ascoltando i suoi consiglieri chiedere «più galera per i giornalisti» (fino a sei mesi per un documento processuale; fino a tre anni per un’intercettazione). Raccontano che Berlusconi abbia detto: «Cari, lasciate dire a me che sono editore di mestiere. Se li mandi in galera, ne fai degli eroi della libertà di stampa e magari il giornale per cui lavorano vende anche di più, e questo sarebbe uno smacco. La galera è inutile. So io, da editore, quel che bisogna fare».
Ecco allora l’idea che sta per diventare legge dello Stato. Efficace, distruttiva. Che paghino gli editori, che sia il loro portafogli a sgonfiarsi. La trovata sposta la linea del conflitto. Era esterna e impegnava la redazione, l’autorità giudiziaria, i lettori. Diventa interna e vede a confronto, in una stanza chiusa, redazioni e proprietà editoriali. La trovata trasferisce il conflitto nel giornale. L’editore ha ora un suo interesse autonomo a far sì che il giornale non pubblichi più quelle cronache. Si porta così le proprietà a intervenire nei contenuti del lavoro redazionale, le si sollecita, volente o nolente, a occuparsi dei contenuti, della materia giornalistica vera e propria, sindacando gli atti dei giornalisti. Il governo pretende addirittura che l’editore debba adottare «misure idonee a favorire lo svolgimento dell’attività giornalistica nel rispetto della legge e a scoprire ed a eliminare tempestivamente situazioni di rischio». Evidentemente, solo attraverso un controllo continuativo e molto interno dell’attività giornalistica è possibile «scoprire ed eliminare tempestivamente situazioni di rischio». Di fatto, l’editore viene invitato a entrare nel lavoro giornalistico e a esprimere un sindacato a propria tutela. Divieto di cronaca per il tempo presente, controllo dell’editore nelle redazioni in tempo reale. Ecco dunque lo stato dell’arte: si puniscono i giornali e i giornalisti; si sospende il direttore dall’esercizio della sua funzione; si punisce l’editore spingendolo a mettere le mani nella fattura del giornale. E quel che conta di più, voi non conoscerete più (se non dopo quattro o sei anni) le storie che spiegano il Paese, i comportamenti degli uomini che lo governano, i dispositivi che influenzano le nostre stesse vite.