Una discussione tra storici: quali sono i fatti, quali invece i giudizi e quali infine le strumentalizzazioni? Distinguere è indispensabile.
La Repubblica, 17 aprile 2013
«SU PRIMO LEVI SOLO SCANDALISMO»
di Massimo Novelli
Studiosi e ricercatori contro “Partigia”, che racconta un episodio controverso ma già noto della Resistenza in cui fu coinvolto l’autore di “Se questo è un uomo”
«Il mio periodo partigiano in Valle d’Aosta è stato senza dubbio il più opaco della mia carriera, e non lo racconterei volentieri: è una storia di giovani ben intenzionati ma sciocchi, e sta bene fra le cose dimenticate. Bastano e avanzano i cenni contenuti nel Sistema periodico». Così Primo Levi scriveva nel 1980 in una lettera a Paolo Momigliano, presidente dell’Istituto storico della Resistenza di Aosta. Da quei «cenni» è partito lo storico Sergio Luzzatto per costruire il suo libro Partigia. Una storia della Resistenza,subito al centro di polemiche. Nel saggio, pubblicato da Mondadori e non da Einaudi, la casa editrice di molte opere di Luzzatto, si sottolinea soprattutto l’«ossessione» che lo scrittore torinese avrebbe avuto per un episodio avvenuto in quelle settimane di vita partigiana.
Rifugiatosi in Valle d’Aosta, Levi si era unito a una banda composta da comunisti legati al Partito comunista internazionalista e da anarchici. Oltretutto, dopo pochi giorni, la formazione fu infiltrata da ufficiali fascisti inviati dai caporioni aostani della Repubblica di Salò. Le spie, addirittura, ben presto assunsero il comando della banda, fino a consegnare quei ragazzi nelle mani dei loro camerati nazifascisti. La presunta «ossessione » dell’allora giovane dottore in chimica, com’era Primo Levi, sarebbe stata originata dall’avere appreso della fucilazione da parte dei partigiani di due compagni, Fulvio Oppezzo e Luciano Zabaldano, accusati di furto. Avvenne quando nella formazione si erano già insediati i fascisti
Come restano i dubbi sull’interpretazione delle parole di Levi sulla fucilazione di Oppezzo e Zabaldano. Frediano Sessi ritiene che «negli accenni contenuti nel Sistema periodico, oltre a non esserci alcun suo giudizio negativo sulla Resistenza, esprime invece il dolore per la morte dei due ragazzi, probabilmente autori di furti, perché facevano parte della stessa comunità umana in cui era entrato lui. Ecco perché se ne sentì coinvolto, quasi corresponsabile ». Oppezzo e Zabaldano, a ogni modo, dopo la Liberazione furono fatti passare per martiri della Resistenza. Sessi lo spiega col fatto che «nessuno aveva più saputo niente di loro: si credette, pertanto, che fossero caduti in combattimento». ùAnche lo storico Giovanni De Luna è molto critico: «Non accetto nel revisionismo questa continua enfasi sulla rottura della cosiddetta “vulgata resistenziale”, sulle scoperte di “verità tenute nascoste”. Sono argomenti privi di fondamento. Tutto ciò era emerso da tempo, fin dal dibattito degli anni Settanta sulla Resistenza. Ad alcuni che oggi scrivono di Resistenza, gente che si è formata nel dibattito degli anni Novanta, rimprovero la mancanza di consapevolezza dei contesti storici». Ernesto Ferrero, a lungo dirigente dell’Einaudi e che a Levi ha dedicato vari studi, è altrettanto severo: «Capisco che una vicenda così intimamente dostoevskiana possa appassionare il narratore che sonnecchia in ogni storico. Ma mi pare di ravvedere nello sviluppo anche mediatico che se ne è fatto, una specie di uso improprio di estrogeni storiografici ». Conclude Ferrero: «Proprio perché Levi non ha creduto alla retorica della Resistenza, era profondamente amareggiato dalle furbizie del revisionismo. Antropologo scrupoloso e geniale, sulle scelte etiche non transigeva. E anche da questo episodio esce più grande che mai».
QUELLE POLEMICHE FUORI DAL TEMPO CONTRO LA SINISTRA
di Guido Crainz
Leggerò d’un fiato il libro di Sergio Luzzatto, e non solo perché il suo Il corpo del duce è
uno dei libri più importanti che io abbia letto sul rapporto fra la storia e la memoria del fascismo. Lo leggerò d’un fiato soprattutto perché rinvia a più di una questione storiografica ed etica. Leggendo il libro, naturalmente, capirò come lo fa, in che modo dialoghi con riflessioni avviate sin da allora su questi temi o prenda altre vie. Nel 1945, nell’ultima pagina di Un uomo, un partigiano,
Roberto Battaglia ci consegnava per intero il dramma vero che stava sullo sfondo della “giustizia partigiana”: «Nel giudicare i condannati — scriveva — si soffriva alle volte quanto essi, si era presi dalla loro stessa angoscia». In quelle pagine — ha osservato Ugo Berti introducendo per “il Mulino” la ristampa di quel bellissimo libro — «la condizione di fuorilegge-legislatore è esposta
e interrogata nell’argomento cruciale, la legittimità del dare la morte».
A questo nodo, a questo tragico nodo di fondo rinviano anche episodi marginali o feroci, “atipici” eppur impastati della “normalità” della “guerra civile”. È merito di Claudio Pavone aver aperto più di vent’anni fa la riflessione su questi temi (più di vent’anni fa, si badi bene) sfidando duri fuochi di sbarramento e offrendo però strumenti preziosi ad una stagione di studi che ha rimosso tabù e reticenze. E non ha caso il sottotitolo del suo libro, Una guerra civile,è Saggio storico sulla moralità nella Resistenza.
Quella stagione di studi, che ancora continua, ha affrontato ampiamente le pagine più aspre e dure del ’43-45 e poi il protrarsi della violenza armata contro i fascisti ben oltre il 25 aprile (il lungo protrarsi cioè dell’“ombra della guerra”). Si è interrogata non solo sulle “vul-
gate” ma anche su talune ipocrisie e falsificazioni della memoria pubblica Qualche anno fa un bel libro di Spartaco Capogreco, Il piombo e l’argento (Donzelli), ha illuminato di luce cruda la storia del “partigiano Facio”, combattente nell’appennino tosco-emiliano sin dalla prima fase della Resistenza (e in relazione anche con i fratelli Cervi). Insignito di medaglia d’argento nei primi anni Sessanta e un vero simbolo, in quella zona, ma ucciso in realtà da altri partigiani: non per ragioni di antifascismo ma di sopraffazione (il controllo e il comando di un’area). Un caso di ingiustizia partigiana e al tempo stesso di falsificazione di memoria: e anche qui la specifica, e feroce, “ingiustizia partigiana” rinvia — è merito di Capogreco averlo sottolineato in modo partecipe — a quel più generale nodo della “giustizia partigiana” su cui Battaglia si arrovellava con passione e tensione etica.
Per molti versi, dunque, abbiamo accumulato sufficiente maturità culturale e storiografica per misurarci in modo pacato con i nodi drammatici di una guerra civile, in tutto il loro amplissimo spettro: e i ricorrenti lamenti sulle “rimozioni della storiografia” (della storiografia di sinistra, naturalmente) appaiono pateticamente fuori stagione. Forse non è ad esse che si deve se alcune grossolane letture hanno trovato ampio spazio, se troppo spesso singoli episodi sono stati ingigantiti e assunti a rovesciato simbolo, gli alberi malati sono stati utilizzati per nascondere la foresta, il dito per occultare la luna (e, soprattutto, la riflessione su di essa). Ha una data d’avvio, questa falsificazione: è a partire dagli anni Ottanta che la “riconciliazione morbida” con il passato, in primo luogo con il passato fascista, si è accompagnata alla sostanziale deformazione del dramma e delle scelte di campo del 1943-45.Già molti anni fa Nicola Gallerano ha scritto su questo pagine illuminanti, e alla “vulgata antiantifascista” Luzzatto stesso ha dedicato di recente le acute pagine di un agile libro, La crisi dell’antifascismo. Una ragione in più, per quel che mi riguarda, per leggere il suo ultimo lavoro, anche per gli stimoli critici della recensione di ieri di Gad Lerner. Per il resto, da accanito lettore di quotidiani non mi stupisco certo se qualcuno non perde occasione per suonare stanche canzoni.