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Vincenzo Vitiello
Se l’uomo è il centro. Le strade della filosofia nella crisi della politica
3 Febbraio 2013
Libri segnalati
«Stiamo assistendo alla fine della polis? Il pensiero
 ha ancora un destino 
nella sfera pubblica, o guarda oltre?» Domande, non risposte.

«Stiamo assistendo alla fine della polis? Il pensiero
 ha ancora un destino 
nella sfera pubblica, o guarda oltre?» Domande, non risposte.

L’Unità, 3 febbraio 2003

«Certo è strano non abitare più la terra»: questo mesto verso di Rilke descrive non la crisi del nostro tempo, ma il suo trionfo. Il trionfo dell’appropriazione umana della terra e del tempo, il trionfo della storia e della politica. A questa appropriazione, che, seguendo il racconto di Genesi (2, 19-20), inizia da quando Dio concesse all’uomo la facoltà di dar nome agli animali della terra e del cielo, la filosofia ha dato un contributo notevole, concependo la vita buona come quella vita che si realizza nella comunità degli uomini padroni della terra e di tutto quanto sulla terra cresce e vive.

Mestizia di poeta separato dal mondo, quella di Rilke? O non piuttosto un sentimento, frustrato, di più profonda partecipazione alla vita del tutto? Forse la crisi della polis, sottraendo alla filosofia il suo tema principale – la res publica, come la suprema res humana – apre l’orizzonte del pensiero oltre la soglia dell’umano. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione in filosofia, che, in contrasto con quella «copernicana di Kant, definirei «tolemaica», dacché segna il passaggio dalla riflessione del mondo a partire dall’uomo alla considerazione dell’uomo muovendo dal mondo. E qual filosofo della nostra modernità ha contribuito a questa trasformazione più e meglio di Spinoza?

Biagio de Giovanni, filosofo della politica che ha sempre accompagnato l’attività di studioso con l’impegno politico, in un suo recente libro, Hegel e Spinoza. Dialogo sul moderno, ha ampiamente argomentato che la risposta di Spinoza alla crisi del moderno – la scissione io-mondo – è più «avanzata» di quella hegeliana, perché non «redime» il finito, assorbendolo nel processo della universale ragione come suo momento necessario, ma lo «salva», e cioè lo «serba» nella sua finitezza, entro il «libero» spazio della sostanza eterna.

Altra volta ho rilevato la vicinanza di questa interpretazione della sostanza spinoziana all’Ereignis di Heidegger, l’evento puro che tutto pro-voca ed accoglie, e nulla impone. Vi torno su, in questa sede, perché Spinoza – lo Spinoza che de Giovanni non esita a dire «il mio Spinoza» –, pur teorizzando la razionalità dello Stato, procede oltre il «politico», verso quella fondazione etica della ‘comunità’ che non è in potere della comunità. Per l’autore del Tractatus teologico-politicus e del Tractatus politicus «sostanza» è il nome della «natura» in c «sostanza» è il nome della «natura» in cui l’uomo abita, e solo perché abita in essa, può comunicare con altri, può, cioè, far comunità.

L’etica di Spinoza ha come tema la natura che non è solo punti, linee e figure geometriche, è sovratutto corpo vivente, Leib, e cioè: passione, sentimento, amore e odio, letizia e tristezza, immaginazione. È, nel linguaggio di Rilke, la Terra oltre la Città: la Terra che «salva» l’uomo nella sua finitezza e libertà. È questo il messaggio? Il nuovo messaggio della filosofia?

Nel 1991-92 – son passati vent’anni! – Carlo Sini tenne un corso alla Statale di Milano su La verità pubblica e Spinoza. Pubblicato la prima volta nel 2005, è stato riedito nel IV volume, tomo I, delle sue Opere, in questo inizio d’anno. Essendo stato già recensito su queste pagine, posso andar subito all’essenziale, che è già tutto nello stile del testo, che ha conservato l’andamento della lectio, della lettura. Della lettura non d’un libro, ma del mondo, quale si es-pone nel pensiero che si fa nell’atto stesso di dirsi, di scriversi. Questa la verità pubblica del mondo (e non sul mondo). Verità che non è, perché in via di farsi, come il mondo.

In questa pratica di pensiero Spinoza da «oggetto» diviene soggetto del pensiero, sorgente che non si conosce, meglio: che non è altrove che in ciò che essa alimenta. Pertanto non ha senso voler distinguere quello che è di Spinoza da quello che è di Sini – e non perché non lo si possa fare, ma perché facendolo, si cristallizza il pensiero, gli si toglie vita. Sini leggendo Spinoza, lo «continua» (per usare il verbo felicemente scelto da Massimo Adinolfi per il titolo del suo libro, appunto: Continuare Spinoza). Di qui l’arditezza delle analisi siniane, dalla negazione che gli attributi della sostanza siano due, pensiero ed estensione, o addirittura infiniti, alla affermazione che l’essenza della sostanza è «espressa» nel «sive» che congiunge-separa Dio e natura: Deus sive natura.

Invero le due tesi dicono il medesimo: perché se «i due nomi (pensiero ed estensione) sono l’identico trascolorare della sostanza nella loro differenza», cosa mai può essere la sostanza fuor del «trascolorare»? Il «sive» è il segno, la traccia che l’evento del trascolorare lascia nel pensiero, come nel corpo, in cui trascolora. Ma l’evento non è la traccia: pensieri e corpi, per dirla con Spinoza, non sono la sostanza. La verità pubblica del mondo non è il mondo. L’evento puro, il mondo, di cui il «sive» è segno o traccia, «non è pensabile (... e non è da pensare».

L’evento puro del trascolorare dell’Indifferente nelle differenze non lo si pensa, lo si vive. In esso e di esso viviamo. Nella verità pubblica, oltre la verità pubblica: nella polis, oltre la polis. È un libero «trovarsi accanto» a uomini come a erbe e pietre e animali, oltre il «con-esserci» dell’ordine giuridico, delle leggi e della giustizia. Sini chiama mondo, quel che Rilke nomina terra. Pur nella grande differenza di metodo, intenti e scrittura, le analisi di de Giovanni e di Sini convergono nel risultato.

Lontani entrambi dal mito della terra incontaminata, trovano la terra, o, come entrambi amano dire, il mondo ciò che dà stabilità e potenza al fare nei conflitti della politica e pur nelle distruzioni delle guerre. Qui, nell’aiuola che ci fa feroci, e non altrove si «salva» il finito. O meglio: è già da sempre salvato. La nostra «salvezza» (de Giovanni), la nostra «eternità» (Sini), non è certo nella miseria delle nostra differenze, ma nella sovrabbondante ricchezza della sostanza, dell’evento, del mondo, che, peraltro, è solo in quelle differenze. Fuor di queste sarebbe solo Silenzio.

Mi chiedo se non sia questa un’ultima rassicurazione – necessaria all’uomo per non pensare alla morte: dell’uomo, del mondo, della Terra. Per Spinoza il filosofo pensa la vita, non la morte. Per Spinoza.

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