Sembrava che si dovesse discutere di programmi per l’alternativa di governo, ma pare che ci si debba accontentare di un dibattito serrato sulle formule di aggregazione, e in qualche caso di disaggregazione, del centrosinistra. La proposta di Prodi, come credevano di aver capito molti elettori e come argomenta anche Occhetto nella sua recente intervista all’Unità, contemplava la necessità di una vasta coalizione: lista unica non era forse l’espressione migliore. Al momento sembra che debba bastare un’altra lista unica: il piccolissimo Ulivo, somma della maggioranza Ds, dell’intera Margherita (ma non ci sarà una minoranza poco convinta?) e ovviamente dell’intero Sdi, in cui si fa fatica a immaginare una minoranza. La fermezza con cui questa alleanza si è nominata avanguardia promotrice di una coalizione più vasta rischia di provocare fenomeni di natura opposta. Intanto l’Italia dei valori di Di Pietro, che vale sotto il profilo elettorale almeno sei volte di più dello Sdi viene con malcerto garbo tenuta fuori. Boselli non vuole, è il ritornello che sentiamo: non per cattiveria, ma perché non è riformista. È una risposta, ma non sembra convincente se l’obbiettivo è aggregare. E il merito di aver trattenuto qualche socialista dalla deriva verso Forza Italia non sembra così rilevante da autorizzare veti a un alleato meno radicato nelle amministrazioni ma assai di più nel consenso popolare.
Ma non basta. L’avanguardia, stringendo il proprio cerchio, pensa che fissata la guida del processo gli altri seguiranno. Era il limite dell’articolo di Fassino di un mese fa: un riformismo che trova il suo popolo. In realtà parlava a lungo del soggetto che dovrà guidare il processo, ma diceva assai poco sul progetto riformista. La reticenza sul tema non è incoraggiante. Si capisce che la parola chiave è modernizzazione, ma non si può continuare a dire, ormai da due anni, che ci vogliono quattro, cinque grandi idee guida e non dire mai quali sono. La minoranza Ds, i Verdi, i Comunisti italiani, Rifondazione, i vari movimenti, i girotondi, il Social Forum hanno ognuno la propria cultura politica, un’idea di se stessi e della propria collocazione, ma possono tutti insieme dare un contributo progettuale efficace.
Lo riconoscono autorevoli voci uliviste come quella di Occhetto. Proporre loro di fare la coda della cometa, abbagliati dalla modernizzazione senza sapere nemmeno cos’è, non è saggio. Tanto più che nessuno oggi può prevedere quali saranno i consensi elettorali alle diverse forze politiche. Affermare che si costruisce un’aggregazione per raggiungere il 35-40 per cento dei consensi non dà alcuna garanzia sul risultato effettivo: in questa materia volere non è potere. Né è saggio scommettere sul riflusso dei movimenti. I partiti di centrosinistra senza la spinta della società civile sono rachitici e lo hanno già scoperto a loro spese. Nessuno può dimenticarsi che bisogna arrivare al 51 per cento.
Se il piccolissimo Ulivo spera di guadagnare la sua quota aggiuntiva di voti convincendo i socialisti del centrodestra a tornare indietro, dovrà solo augurarsi che gli elettori volenterosi non fuggano nell’astensionismo. Lo spirito soffia dove vuole e si potrebbe scoprire che la costruzione di una lista unica troppo ristretta finirà per allargare i consensi alle altre forze sia verso il centro che verso sinistra.
Poi ci sono le aspettative. Tra certi dirigenti del centrosinistra si sta diffondendo una pericolosa euforia: che il centro destra si stia sfarinando, che Berlusconi abbia già perso, e che noi, senza saperlo, abbiamo già vinto. Forse non dobbiamo più nemmeno lottare per prevalere. È un pensiero pericoloso: dimentica la gravità dell’anomalia istituzionale che ha inquinato la politica italiana, sottovaluta la crisi costituzionale che quella ha aperto, trascura che il capo del governo è appeso all’immunità concessa in particolare alla sua e per ipocrisia alle altre quattro massime cariche dello Stato. Per sfuggire ai processi deve correre da una all'altra. Ma se non gli sarà permesso che cosa farà?
La sindrome da governo virtuale ha afferrato Rutelli. Era stato il primo a mandare gli alpini in Afghanistan (sulla beatitudine di quella pace vedi John Pilger, il Manifesto, 19 ottobre). Ora vuole essere il primo a mandare altre truppe nell’Iraq regolarizzato, si fa per dire, dall’Onu. L'equivoco giuridico-politico è davvero pesante: la guerra illegale resta illegale e si dovrebbe semmai prima pretendere un pieno ristabilimento dell’autorità dell’Onu. Atteggiamenti analoghi si colgono in politica interna. Sembra che il senatore De Benedetti, autore della fortunata formula «L’Ulivo deve fare come se Berlusconi non ci fosse», abbia cominciato a trarne indicazioni per il nostro futuro governo: per carità non si metta a disfare quello che ha fatto il centrodestra e guardi avanti. Come dobbiamo interpretare il suggerimento? Ci teniamo il falso in bilancio, il legittimo sospetto, l’immunità-impunità, il fisco sul lastrico, la scuola pubblica e la sanità pubblica impoverite, l’industria trascurata, le pensioni dei lavoratori affidate alle bizze della Borsa, il lavoro dei giovani precarizzato, la Patrimonio Spa e la relativa svendita dei beni culturali e ambientali, l’ordinamento giudiziario rifatto tramite cancellazione delle garanzie costituzionali per i magistrati, la convivenza con la mafia? Ci teniamo tutte o solo qualcuna di queste gioie? Rinunciamo alla legge sul conflitto d'interessi, tanto oramai non serve più? Evitiamo di separare il potere politico dalla potenza dell’informazione e restauriamo il caro vecchio duopolio televisivo, risanato dopo la parentesi monopolistica?
Ci si può augurare che l’ansia riformista-conservativa del senatore sia poco condivisa dalla classe dirigente del centrosinistra. Ma sarebbe bello sentirlo dire a voce alta. In caso contrario come potremo guardare in avanti se dovremo guardarci le spalle?